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Terapia genica: uno a zero sulla talassemia

CRONACA – Per la prima volta, curato con la terapia genica un paziente affetto da beta-talassemia: un risultato importantissimo, anche se con qualche ombra

Quasi due anni senza trasfusioni di sangue: da tanto resiste il giovane francese P2, malato di beta-talassemia, dopo un “intervento” di terapia genica eseguito nel 2007, che sembra proprio averlo curato una volta per tutte dalla sua malattia. Un grande risultato, annunciato ieri dalle pagine di “Nature”, che segna un nuovo punto a favore di una strategia terapeutica sulla quale negli ultimi anni era un po’ calato il silenzio, a causa di alcuni insuccessi seguiti ai (troppo) facili entusiasmi della prima ora. Anche sul caso di P2, in realtà, c’è qualche ombra: non è del tutto chiaro il meccanismo con cui la patologia è stata trattata e il paziente è tenuto sotto stretta osservazione perché il rischio che, a seguito del trattamento, possa sviluppare forme tumorali benigne o maligne non è escluso del tutto. Per il momento, però, le cose sembrano funzionare bene e il giovane si gode la sua nuova vita senza appuntamenti mensili con le trasfusioni .

Ma che cos’è esattamente la beta-talassemia? Si tratta di una malattia ereditaria caratterizzata da un difetto quantitativo nella produzione di alcune delle molecole (le cosiddette catene beta) che costituiscono l’emoglobina, la proteina del sangue che trasporta ossigeno in tutto l’organismo. La condizione di P2 era tale da fargli produrre poca emoglobina, e per lo più in forma alterata. Per questo ha avuto bisogno, a partire dai tre anni di età, di continue trasfusioni di sangue. Per la beta-talassemia, infatti, non c’è cura (salvo il trapianto di midollo osseo da un donatore compatibile: una soluzione rara e comunque non priva di rischi) e da tempo gli scienziati cercano di sviluppare una terapia di tipo genetico, che sia in grado di restituire ai pazienti la capacità di produrre emoglobina funzionante.

Nel caso di P2 le cose sono andate così: i medici anzitutto hanno prelevato alcune cellule staminali dal suo midollo osseo e le hanno fatte crescere in laboratorio, introducendovi un vettore virale (un virus modificato in modo da fare da taxi) contenente il gene “sano” per la produzione di catene beta dell’emoglobina. Poi P2 è stato sottoposto a un ciclo di chemioterapia, per uccidere il maggior numero possibile di cellule del suo midollo osseo (tutte cellule che portavano il gene difettoso) e infine gli sono state iniettate di nuovo le cellule staminali “corrette”. Poco a poco queste cellule (insieme a quelle difettose residue) hanno ricolonizzato il midollo osseo e, nel giro di un anno, hanno permesso a P2 di produrre una quantità di emoglobina normale non altissima ma sufficiente a evitare le trasfusioni. Al momento le cellule corrette costituiscono un nono della popolazione cellulare midollare di P2, e l’emoglobina sana è un terzo del totale. Tutta l’operazione è stata condotta da una vasta équipe internazionale guidata da Philippe Leboulch dell’Università di Parigi XI e dell’Harvard Medical School di Boston.

Dove sta, allora, l’ombra di cui parlavamo all’inizio? Eccola: a un certo punto, i ricercatori si sono accorti che tra le cellule corrette di P2 ce n’era un gruppo particolarmente folto caratterizzato dalla sovrapproduzione di una particolare proteina chiamata HMGA2, che è stata associata ad alcune forme tumorali benigne e anche ad alcuni casi di leucemia. Facciamo un passo indietro: quando i ricercatori iniettano in una cellula un vettore virale con il suo carico genetico, questo va a inserirsi più o meno a caso nel genoma della ospite. In alcuni casi, quindi, può inserirsi all’interno o nei pressi di un gene che regola la moltiplicazione cellulare (come appunto HMGA2), alterandolo. A sua volta, questa alterazione può provocare l’innesco di un processo di tumorigenesi.

Per il momento P2 non mostra alcun segno di sviluppo tumorale o pretumorale, ma ovviamente la situazione va tenuta d’occhio. In più, il fatto che quelle con HMGA2 in eccesso siano le più numerose tra tutte le cellule corrette induce i ricercatori a interrogarsi su che cosa abbia davvero portato al trattamento della malattia. Dal momento che le cellule che hanno più HMGA2 tendono a moltiplicarsi più velocemente delle altre, c’è la possibilità che la terapia abbia avuto successo proprio perché in una particolare cellula staminale di P2 il vettore virale si è inserito nel genoma in modo da favorire la produzione di HMGA2 e dunque la proliferazione cellulare. In altre parole, P2 potrebbe avere una popolazione di cellule sane tale da garantirgli una quantità sufficiente di emoglobina solo perché alcune hanno inglobato il gene corretto in un certo posto, riuscendo in questo modo a moltiplicarsi facilmente. Una condizione che, è ovvio, non sarebbe facilmente riproducibile. Per la verità, sulla base di alcuni dati i ricercatori tendono a escludere che questo sia quanto accaduto, ma per essere sicuri che la terapia funziona davvero ed è davvero sicura occorreranno altri “interventi”.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance