Uno studio canadese sostiene che si possa insegnare ai medici a essere empatici. Ma perché è così importante? E perché tanti, oggi, non lo sono? Ne parliamo con due rappresentanti della categoria.
SALUTE – Il medico? Se è empatico è meglio. Bella scoperta, si dirà. È indubbio che i pazienti preferiscano trovarsi di fronte un medico non soltanto ben preparato, ma anche disposto ad ascoltare, a capire i loro stati d’animo e, se necessario, a lanciare uno sguardo comprensivo, a dire una parola di conforto, ad allungare la mano per un contatto emotivo. E, alla faccia dei metodi alla Dr. House, il vantaggio non è solo per i malati. Come ci ricorda lo psicologo clinico Egidio Moja, direttore del centro di ricerca Cura sugli aspetti comunicativo-relazionali in medicina dell’Università di Milano, «in letteratura sono sempre più numerosi gli studi che dicono che l’empatia in clinica è associata a un esito migliore delle visite e a una maggior soddisfazione dei medici stessi». Eppure, quella della mancanza di empatia è proprio una delle accuse principali che i pazienti rivolgono ai loro curanti. Che cosa c’è, dunque, che non funziona, nel rapporto tra medici e pazienti, e come si possono migliorare le cose? Abbiamo cercato di fare un po’ di luce sulla questione .
Insegnare l’empatia ai medici
Lo spunto ce lo ha dato un articolo pubblicato poche settimane fa sul “Canadian Medical Association Journal”. Lo firma, insieme a un paio di colleghi, l’oncologo Robert Buckman, già autore di un fortunato libro che spiega ai colleghi medici come comunicare cattive notizie ai pazienti (La comunicazione della diagnosi, Raffaello Cortina, 2003). Nell’articolo in questione, gli autori riflettono sull’importanza, l’utilità e l’efficacia di insegnare l’empatia – definita come “capacità di comprendere l’esperienza di un’altra persona, di comunicare questa comprensione e di agire di conseguenza in modo utile” – ai giovani medici, qualora questa non sia già una loro caratteristica innata.
Dottori poco empatici
I dati da cui partono sono disarmanti: Buckman e colleghi, infatti, ricordano un paio di studi condotti in ambito oncologico nel 2007 e nel 2008, da cui si evince che, nel corso delle visite, i medici hanno risposto in modo empatico a comunicazione emotive dei pazienti solo nel 22% e nel 10% dei casi, rispettivamente. Allo stesso tempo, però, i medici canadesi intendono rassicurarci: «Ci sono numerose prove che una comunicazione empatica possa essere insegnata – e appresa – in modo efficace. Bastano piccoli cambiamenti nei curricula di studi universitari per ottenere risultati incoraggianti».
I vantaggi per il camice bianco
Ottimo, ma intanto a noi sono venute in mente alcune domande. Per esempio: quanto è diffusa, tra i medici, la percezione che la mancanza di empatia possa costituire un problema nel lavoro clinico quotidiano? E perché siamo arrivati a questa situazione? E, ancora, come si può provare a porre rimedio? Oltre a Egidio Moja, ci ha aiutati a rispondere anche Carlo Nizzoli, direttore del Dipartimento di medicina interna dell’azienda ospedaliera Careggi di Firenze e presidente della Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti (Fadoi).
Per entrambi è chiaro che l’esigenza di instaurare con i pazienti una comunicazione differente, più empatica appunto, comincia a diffondersi anche in ambito medico. Anche perché, come dicevamo all’inizio, una buona comunicazione va a vantaggio di entrambe le parti, essendo associata a una migliore compliance (l’aderenza dei pazienti ai trattamenti prescritti), a una riduzione delle denunce contro i medici per malpractice (inefficienze, negligenze, errori), e a una riduzione dello stress professionale dei medici (il cosiddetto burnout). Come dire, se si comunica meglio, alla fine sono tutti più contenti.
Ma perché tanta disattenzione?
Per quanto riguarda le cause dell’assenza, nella maggior parte dei casi, di un comportamento realmente empatico, i nostri esperti ne tirano in ballo almeno due, collegate tra loro. Da un lato, il fatto che, almeno nell’ultimo paio di secoli, il modello prevalente di medicina in Occidente sia stato un modello centrato sulla malattia, più che sul paziente. “I medici si sono concentrati sui singoli organi, sulla loro fisiologia e la loro patologia, forse perdendo un po’ di vista il paziente nella sua totalità”, afferma Moja. Nizzoli, invece, punta il dito soprattutto sull’incremento di approcci tecnologici, sia per la diagnosi sia per la terapia: “Approcci che probabilmente hanno allontanato i curanti dai loro malati”. Intendiamoci, però: qui bisogna fare molta attenzione a non buttare il bambino con l’acqua sporca. “Il modello centrato sulla malattia è stato un modello di straordinario successo, che ha permesso alle persone che vivono nei paesi sviluppati di avere una lunghissima aspettativa di vita; in un certo senso è paradossale che proprio oggi, proprio di fronte a tali successi, ci lamentiamo tanto dei medici”, precisa Moja.
Cambiano le malattie, cambia la società
Però è vero che questo modello, pur di straordinario successo, mostra oggi qualche limite, anche perché è cambiato il contesto generale in cui è inserito. “Intanto, sono cambiate le malattie. Rispetto a 50-60 anni fa, ora abbiamo a che fare più spesso con malattie croniche che con malattie acute, e la comunicazione si deve adeguare. Un conto è comunicare con un paziente a rischio per una polmonite, un altro farlo con un ragazzino a cui è stato diagnosticato il diabete e a cui bisogna far capire una serie di ‘regole’ che dovrà seguire per sempre”, spiega Moja. “E poi è cambiato il rapporto stesso tra medico e paziente, che è diventato meno autoritario. Il medico non è più una sorta di generale che detta leggi marziali, ma un maestro di salute, che discute con il suo paziente che cosa è meglio per lui”.
A scuola di empatia
Insomma, comunicare meglio, in modo empatico, tenendo conto delle preoccupazioni e dei sentimenti dei pazienti, è ormai diventato necessario. Ma come si raggiunge questo obiettivo? Su un punto Moja e Nizzoli sono d’accordo: è molto difficile insegnare a essere empatico a qualcuno che per natura non lo è. Però la battaglia non è persa in partenza: per vincerla, bisogna rimboccarsi le maniche e puntare molto sulla formazione. A tutti i livelli: durante il corso di laurea, durante la specializzazione, durante il lavoro quotidiano con la formazione continua. Qualcosa in questo senso si muove. All’Università statale di Milano, per esempio, è stato inserito un corso obbligatorio per gli studenti di medicina, dedicato appunto a comunicazione e relazione in medicina (per ora è l’unico in Italia, ma altre università stanno valutando l’introduzione di corsi analoghi). “E anche l’avvio di corsi di tipo umanistico potrebbe aiutare: la lettura di Tolstoj sarebbe davvero utile per la formazione, quantomeno, di una capacità di ascolto”, afferma Moja. “Certo, c’è il rischio che tutti questi approcci vengano un po’ sfumati una volta che lo studente arriva in reparto, dove il modello culturale imperante è ancora quello di cui parlavamo prima, centrato sulla malattia. Del resto stiamo parlando di un cambiamento culturale, di sicuro ci vorrà del tempo”. E comunque qualche passo avanti comincia a registrarsi anche nei reparti. La Fadoi, per esempio, ha lanciato alcune iniziative che vanno proprio in questa direzione, come corsi di clinical competence (competenza clinica) per internisti che tengono in debito compito le abilità comunicative dei medici.
Una selezione durissima
Ancora più radicale la proposta che Robert Buckman e colleghi lanciano con il loro articolo, e cioè inserire la valutazione delle capacità empatiche come criterio di selezione per l’accesso all’università di aspiranti medici. Una proposta decisamente destinata a far discutere. “E’ un tema delicatissimo”, sostiene Moja: “Come si fa a misurare con precisione l’empatia di una persona?”.