CRONACA – Mentre si scaldano i motori per il grande evento dei Nobel (si comincia lunedì prossimo con la medicina), qualcuno ha già cominciato a festeggiare. Sono i 23 “geni” che hanno appena vinto il MacArthur Fellows Program, anche noto come genius grant appunto: un premio che ogni anno l’americana John D. and Catherine T. MacArthur Foundation attribuisce a cittadini statunitensi che abbiano esibito particolare meriti creativi. Il riconoscimento è ghiotto: quest’anno, a ciascuno dei 23 fortunati sono andati 500.000 dollari. In cambio, la fondazione non chiede report o produzioni particolari, ma l’impegno a coltivare ed espandere la propria professionalità e le proprie capacità creative. Tra i premiati figurano anche 10 scienziati, entusiasti per l’inaspettato finanziamento che, raccontano, li aiuterà a sviluppare i progetti più rischiosi, solitamente ignorati dai canali tradizionali di finanziamento e a portare l’attenzione del grande pubblico su discipline magari poco conosciute. Ecco di chi si tratta.
Maria Chudnovsky, matematica. Viene dal Technion, istituto di tecnologia israeliano, e lavora alla Columbia University, dopo un passaggio a Princeton. Si occupa di grafi, rappresentazioni astratte in forma di punti e linee di collegamenti tra oggetti discreti, che si tratti di città, persone a una festa o antenne per telefonia mobile. Nel 2002, insieme ad altri colleghi, è riuscita a dimostrare la congettura forte dei grafi perfetti, che identifica i criteri necessari perché u n grafo ricada nella categoria di “perfetto”.
Eric Coleman, geriatra dell’Università di Denver, Colorado. Il trasferimento di un persona anziana dall’ospedale a una casa di riposo o a una struttura di lungodegenza non è mai un’operazione semplice: complice la fretta, errori e mancanza di comunicazione tra i vari operatori sono sempre possibili, con conseguenze spesso anche gravi per i pazienti. Coleman, però, ha messo a punto un programma di interventi, Care Transitions, che ha proprio il compito di assistere questo delicato passaggio, assegnando un ruolo più attivo ai pazienti, ai loro familiari e a una nuova categoria di operatori specializzati. Risultato: i pazienti sono più soddisfatti e il tasso di ritorno in ospedale a 30 giorni dalle dimissioni si riduce significativamente.
Olivier Guyon, astrofisico. Quando aveva dieci anni anni, qualcuno gli ha regalato un libro di astronomia e da allora Guyon non ha mai smesso di guardare il cielo. Anzi, per farlo sempre meglio si è specializzato nel campo dell’ottica per astronomia. In particolare, lavora su tecniche ottiche ottimizzate per la ricerca di pianeti extrasolari e ne ha sviluppata una, la Phase-Induced Amplitude Apodization, che dovrebbe aiutare a ridurre il diametro degli specchi necessari per questo tipo di ricerca. Spera che il premio lo aiuti a migliorare la tecnica, rendendola accessibile anche alle scuole e agli astrofili. Dopo laurea e dottorato in Francia, è diventato assistant professor all’Università dell’Arizona e project scientist al telescopio giapponese Subaru, alle Hawaii.
Elissa Hallem, neuroscienziata. Il suo laboratorio all’Università della California a Los Angeles pullula di parassiti. Nematodi, per la precisione: specie parassite di noi esseri umani, ma anche di bestiame, di insetti, di piante. Insomma, organismi che ci complicano parecchio la vita. Hallem studia il loro senso dell’olfatto, analizzando i meccanismi fisiologici e comportamentali con i quali i nematodi usano questo senso per individuare e colonizzare i loro ospiti. Va da sé che descrivere in dettaglio questi meccanismi può dare una grossa mano alla ricerca di nuove strategie per arginare le infezioni.
Sarkis Mazmanian, microbiologo. Si occupa di uno dei temi più caldi per la biologia di questi anni: la simbiosi tra noi esseri umani e i batteri benefici del tratto gastrointestinale. In particolare, Mazmanian ha studiato a fondo le interazioni tra questi batteri e il nostro sistema immunitario, descrivendo il modo in cui i microrganismi riescono a indurre tolleranza da parte delle cellule immunitarie. Scoperte che potrebbero tornare utili nella comprensione dei meccanismi alla base di molte malattie autoimmuni ancora poco note o addirittura nello sviluppo di nuove terapie contro queste patologie.
Terry Plank, geochimica. I suoi genitori erano chimici, lei fin da piccola amava le rocce: in qualche modo un destino segnato, dunque, quello verso la geochimica. Oggi Plank, professoressa alla Columbia University, si occupa di vulcani e di processi tettonici, concentrandosi in particolare sulla generazione e le caratteristiche del magma. «Il mio obiettivo? Trovare il modo di associare la composizione chimica del magma eruttato da un vulcano con le particolari condizioni fisiche che hanno portato alla sua formazione nelle viscere della Terra».
Nancy Rabalais, ecologa marina. Se diciamo “inquinamento” e “Golfo del Messico”, la mente vola immediatamente alle immagini del disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, nel 2010. In realtà, anche prima di quell’evento le acque del Golfo avevano i loro bei problemi, come testimonia il lavoro di Rabalais, che dagli anni Ottanta studia le dinamiche delle cosiddette zone morte, quelle a bassa concentrazione di ossigeno (ipossiche), inospitali per la maggior parte delle forme di vita. E poiché le cause del problema sono tipicamente umane (il fenomeno dipende soprattutto dall’uso massiccio di fertilizzanti in agricoltura), Rabalais si impegna anche sul fronte sociale, lavorando con agricoltori e amministratori locali a strategie per ridurre la degradazione delle acque del Golfo del Messico.
Daniel Spielman, informatico alla Yale University. Ha capito di voler fare il matematico e occuparsi di computer science quando si è accorto che gli piacevano un sacco i puzzle, ma invece che risolverli preferiva farli risolvere al suo computer. Da allora si occupa di design di algoritmi, cercando di sviluppare nuove soluzioni a vari tipi di problemi, che siano più veloci ed efficienti di quelle esistenti. I suoi codici preferiti sono quelli per la correzione d’errori, fondamentali per tutti i dispositivi e le tecnologie di comunicazione. Nel tempo libero pensa a nuovi problema: «Non ho idea di che cosa facciano gli altri quando sono sdraiati in spiaggia. Per quanto mi riguarda, io faccio matematica».
Melody Swartz, bioingegnere, lavora all’École Polytechnique Fédéral di Losanna. Idrodinamica dei fluidi corporei, modellizzazione del sistema linfatico, vascolarizzazione dei tessuti tumorali, ruolo di molecole del sistema linfatico nell’ambito del microambiente tumorale: sono alcuni dei temi di frontiera su cui lavora Swartz, figura di spicco del nascente campo dell’immunoingegneria, l’incontro tra metodi ingegneristici e problemi immunologici.
Benjamin Warf, neurochirurgo pediatrico. La dimostrazione che anche nei paesi in via di sviluppo si possono offrire standard di cura elevati. Come primario di chirurgia in un nuovo ospedale pediatrico ugandese, Warf ha sviluppato una tecnica chirurgica per il trattamento dell’idrocefalo e altre patologie intra-craniche alternativa a quella utilizzata negli Stati Uniti e nei paesi sviluppati, troppo sofisticata e costosa. Ora Warf è tornato in America, al Children’s Hospital di Boston, ma continua l’attività di formazione per neurochirurghi provenienti da paesi in difficoltà.
Immagini: Courtesy of the John D. & Catherine T. MacArthur Foundation