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Risultati e limiti di 20 anni di ricerche sulla cannabis

14460520194_f8bef11d09_zSALUTE – Nel 1993 erano pochi gli studi epidemiologici ad aver valutato gli effetti della cannabis sulla salute. La maggior parte della letteratura scientifica consisteva in studi condotti su animali, risalenti ormai agli anni ’70, in cui si stabilivano tossicità, teratogenicità e carcinogenicità della cannabis stessa e del THC, il principio attivo delta-9-tetraidrocannabinolo.

Le poche indagini che si erano rivolte agli esseri umani erano limitate, specialmente per la durata degli studi e per la scarsa eterogeneità dei partecipanti, spesso studenti universitari che avevano fatto uso di cannabis in un periodo tra i 7 e i 35 giorni. Negli ultimi 30 anni sono cambiate molte cose, non solo per quanto riguarda l’utilizzo di cannabis ma anche dal punto di vista del contenuto in THC: negli Stati Uniti l’aumento è stato da meno del 2% (1980) a oltre l’8,5% (2006), ma non è ancora chiaro se questa crescita sia avvenuta in parallelo a una riduzione del cannabidiolo (CBD), un cannabinoide non psicoattivo che secondo alcuni esperti è in grado di modulare gli effetti negativi del THC. Se esiste invece una certezza, dal 1993 a oggi, è che il rischio di un’overdose fatale dovuta alla cannabis è decisamente basso. La dose che durante le ricerche è riuscita a uccidere i topi è più alta di quanta un consumatore anche abituale potrebbe pensare di usare in un giorno, tra i 15 e i 70 grammi.

Un contesto difficile

Per offrire un panorama più completo sulle conseguenze dell’utilizzo della cannabis, in un report pubblicato su Addiction lo scienziato Wayne Hall e i suoi colleghi hanno analizzato gli ultimi 20 anni di ricerche, partendo da un presupposto fondamentale: la legalizzazione (ancora limitata) dell’utilizzo personale di cannabis, in parallelo a una maggior conoscenza dell’argomento da parte del pubblico e alle campagne informative che scoraggiano dall’utilizzo, ha reso più importante che mai lo stilare un rapporto completo, che possa risultare credibile e affidabile agli occhi di entrambe le parti. L’attenzione in particolare va alle conseguenze dell’utilizzo regolare di cannabis, inteso come quotidiano o quasi. A oggi i dati suggeriscono che un consumatore abituale su dieci sviluppa una dipendenza, salendo a uno ogni sei nel caso l’utilizzo inizi durante l’adolescenza. Un tasso comunque inferiore rispetto alle persone che fanno uso di eroina (23%) o bevono alcol regolarmente (15%)

Tra le difficoltà principali nel valutare gli effetti vi è il fatto che spesso chi fa uso di cannabis è anche un fumatore, e vanno considerate eventuali difficoltà respiratorie precedenti. Quando poi si cerca di attestare la responsabilità dell’utilizzo di cannabis in un incidente stradale, la questione diventa spinosa in quanto spesso coincide con un abuso di alcol prima di mettersi alla guida. Tutte questioni che gli scienziati hanno tenuto in considerazione, confrontando i potenziali effetti negativi della cannabis con quelli già noti di alcol e tabacco e organizzando le conclusioni del report nelle vari ambiti potenzialmente interessati. In riferimento agli studi meno recenti sono espressamente dichiarati i (a volte significativi) limiti. Questo non rende il report meno utile, ma fa senz’altro di esso una panoramica piuttosto completa sulle linee di ricerca che dagli anni ’80 in poi hanno studiato la cannabis. E senza allarmismo, come invece sembrano suggerire alcuni articoli in merito.

Ferite e mortalità da incidenti stradali: gli studi fino al 1993 hanno stabilito che cannabis e THC determinano un rallentamento del tempo di reazione, del processamento delle informazioni, della coordinazione percettivo-motoria, delle performance motorie e dell’attenzione. Svariati studi condotti all’interno di simulatori di guida  (e poi sulla strada) hanno però suggerito che il guidatore sia consapevole di questa condizione, e che compensi gli effetti guidando più piano ed evitando comportamenti rischiosi. In molte di queste indagini i partecipanti avevano però nel sangue un elevato tasso alcolico, il che ha reso complicato distinguere tra gli effetti dell’alcol e della cannabis. Nell’ultimo decennio nuove ricerche più mirate sono riuscite a separarli, concludendo che l’utilizzo di cannabis duplica il rischio mentre l’abuso di alcol lo moltiplica di 6-15 volte.

Sviluppo fetale, malattie congenite ed effetti post-natali: una meta-analisi degli studi condotti negli anni ’80 e ’90 ha suggerito che un uso regolare di cannabis durante la gravidanza determina un ridotto peso del bambino alla nascita, nonostante gli effetti siano minori rispetto a quelli osservati quando la madre fuma tabacco. Tra i limiti di questi studi vi è il fatto che il consumo di cannabis considerato è quello dichiarato dalle madri stesse, tipicamente molto inferiore a quello reale (rappresenta, secondo gli scienziati, il 2-6%), e che spesso è difficile separare i suoi effetti da quelli del tabacco.

Per quanto riguarda le conseguenze post-natali sul bambino, la nostra conoscenza si basa attualmente su un piccolo numero di studi sempre risalenti agli anni ’90, dai quali è emerso che tra gli effetti dell’uso materno di cannabis vi sono performance cognitive ridotte nei figli, oltre a difficoltà nell’organizzazione percettiva e nei processi cognitivi più complessi, nella lettura e nello spelling. I limiti in questo caso sono vari, non solo per l’esigua quantità di ricerche e dal campione ridotto di donne coinvolte, ma per numerose variabili piuttosto importanti: gli effetti di altre droghe assunte in gravidanza oppure subito dopo la nascita, ma anche le scarse capacità genitoriali.

Capacità cognitive: al 1993, gli studi suggerivano che le performance cognitive dei consumatori di cannabis fossero ridotte rispetto a quelle normali, ma non era chiaro se questo fosse dovuto all’azione della cannabis o se fossero invece le persone con capacità cognitive inferiori a essere più propense a farne uso. O ancora se si trattasse di una combinazione dei due aspetti. Sono seguiti studi più precisi, che hanno identificato deficit nell’apprendimento verbale, nella memoria e nell’attenzione nei consumatori regolari. Deficit spesso legati alla durata e frequenza d’uso, all’età d’inizio e alla dose di THC; ancora non è chiaro se vengano “recuperati” con il tempo, dopo aver smesso di utilizzare la cannabis.

Un ulteriore elemento molto discusso, emerso da una ricerca della durata di 22 anni conclusasi negli anni ‘90, sono i danni strutturali subiti dal cervello dopo lungo utilizzo abituale. Le principali critiche vertono sul fatto che i partecipanti erano troppo pochi e le tecniche usate inadatte; indagini più recenti condotte con imaging a risonanza magnetica hanno riportato modifiche strutturali a livello dell’ippocampo, della corteccia prefrontale e del cervelletto. Il gruppo di Hall ribadisce, anche in questo caso, la necessità di studi più ampi che sfruttino le tecniche di imaging cerebrale.

Conseguenze sociali: al 1993 molti studi suggerivano che il consumo regolare di cannabis determinasse performance scolastiche inferiori, ma non era chiaro quale dei due aspetti fosse causa dell’altro. Una meta-analisi di tre recenti studi ha invece mostrato che prima inizia il consumo di cannabis minori sono le possibilità di completare gli studi e iniziare l’università. Per chi inizia durante l’adolescenza si tratta di un 17% di rischio, e per stabilirlo gli scienziati hanno tenuto conto di altre variabili come condizione sociale dei genitori ed eventuali tipologie di svantaggio.

Apparato respiratorio: in quanto molti consumatori di cannabis fumano anche sigarette, tra le sfide più grandi c’è quella di stabilire i rischi respiratori. Uno studio condotto su 1037 ragazzi neozelandesi, seguiti fino ai 26 anni, ha riportato una ridotta funzionalità respiratoria in quelli che avevano sviluppato una dipendenza. Un follow-up seguente non ha replicato la scoperta. Un altro studio statunitense ha coinvolto più di 5000 partecipanti, seguiti per 20 anni, scoprendo che se fumare cannabis in modo contenuto (da tre a cinque joint al mese) aumentava la funzionalità respiratoria, per l’azione bronco-dilatatoria del THC, il fumo quotidiano invece la diminuiva.

Effetti cardiovascolari e tumori: i rischi sono maggiori negli adulti, ma i giovani con patologie cardiovascolari non diagnosticate possono ugualmente esserne interessati. Uno studio condotto su 3882 pazienti che avevano avuto un infarto del miocardio ha scoperto che la cannabis aveva contribuito in modo acuto. Un altro svoltosi in Francia su 200 ospedalizzazioni relative al consumo di cannabis ha scoperto che molte delle persone che avevano avuto un infarto del miocardio (un unico caso è stato fatale) avevano fatto uso di cannabis nel periodo precedente, e non c’erano altri fattori di rischio individuabili. Il THC e altri cannabinoidi non sono carcinogenici, ma lo è il fumo: per questo motivo fumare cannabis può contribuire allo sviluppo di tumore del polmone, della vescica e delle vie aerodigestive superiori. Anche qui, nel trarre conclusioni dai risultati degli studi, questi vengono adattati in modo da escludere che vi rientrino gli effetti del fumo di sigarette.

Tumori maschili: in base agli studi condotti finora l’utilizzo di cannabis determinerebbe un rischio raddoppiato di sviluppare tumore del testicolo non-seminoma; secondo i ricercatori del team di Hall l’effetto è biologicamente plausibile, in quanto nel sistema riproduttivo maschile ci sono recettori per i cannabinoidi. Saranno tuttavia necessari ulteriori studi più ampi per confermare la correlazione.

@Eleonoraseeing

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   
Crediti immagine: Manuel M.V., Flickr

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".