Diagnosticare la depressione. Nuove strade all’orizzonte
Livelli bassi della proteina mGlu2 sarebbero legati allo stress
RICERCA – Di fronte alle situazioni stressanti e ai momenti difficili della vita ognuno di noi reagisce in maniera personale. C’è chi riesce a fronteggiare il carico di stress e chi non ne esce, ma piuttosto soccombe e sviluppa depressione. Perché questo accade? Una prima risposta arriva da uno studio della Rockefeller University di New York, recentemente pubblicato su Molecular Psychiatry (gruppo Nature) e potrebbe aprire nuove vie per la comprensione, la diagnosi e, di conseguenza, il trattamento farmacologico della depressione.
Il team di ricerca, nel quale ha avuto un ruolo centrale anche la giovane ricercatrice italiana della Sapienza Carla Nasca, ha identificato i meccanismi molecolari dello Stress Gap. L’esperimento è stato condotto su due gruppi di ratti ed ha dimostrato che, di fronte a situazioni create ad hoc, un gruppo sviluppava comportamenti di tipo ansioso simili alla depressione umana, l’altro, invece, rimaneva resiliente. Ciò che hanno potuto dimostrare i ricercatori è che il gruppo di animali suscettibili allo stress aveva livelli più bassi della proteina mGlu2 nell’ippocampo, area cruciale nella risposta allo stress. La diminuzione del recettore mGlu2 deriva da un cambiamento che altera l’espressione dei geni, in questo caso del gene che codifica per il recettore mGlu2. Una riduzione del recettore mGlu2 è fondamentale perché questa proteina regola il rilascio dai terminali nervosi del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso centrale. E il glutammato è essenziale per molti importanti processi cerebrali. “Ogni individuo ha esperienze uniche nel corso della propria vita – ha scritto Bruce McEwen, senior author del lavoro – E sospettiamo che queste esperienze di vita possano alterare l’espressione dei geni e di conseguenza, condizionare la risposta di un individuo allo stress”.
“Attualmente, la depressione è diagnosticata soltanto sulla base di sintomi – ha dichiarato Carla Nasca in una nota stampa – ma questi risultati ci portano sulla buona strada per scoprire marcatori molecolari nell’uomo che possano aiutare nella diagnosi di queste patologie devastanti e portare allo sviluppo di farmaci ad azione rapida che sono particolarmente importanti per diminuire il rischio di suicidio”.
Certo è che la depressione è un disturbo strisciante, che cresce sotto una superficie di apparenza, in una società dove ancora si crede che l’essere depressi sia un po’ come dire “oggi sono giù” o “in questo periodo sono triste”. E che, perciò, per combatterla basti solo la buona volontà, magari iscriversi in palestra, o passare qualche serata tra amici. Non proprio una vera malattia, insomma. Invece, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il disturbo depressivo affligge più di 350 milioni di persone in tutto il mondo, è in costante aumento e rappresenta uno dei principali responsabili del carico globale di malattia nei Paesi ad alto reddito. In estrema sintesi, stando alle stime del 2010 dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, solo in Italia la depressione ha provocato il 4,2% di anni di vita persi per disabilità e morte prematura.
A oggi, una quota non trascurabile del 7% della popolazione italiana, tra il 18 e i 69 anni, in un questionario dell’Istituto Superiore di Sanità, riferisce sintomi di depressione e percepisce come compromesso il proprio benessere psicologico per una media di 17 giorni nell’arco del mese precedente all’intervista. Molte di queste persone – il 42% – non chiedono aiuto a nessuno. Questi dati, da soli, bastano per spiegare l’interesse della ricerca al tema.
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Crediti immagine: Sander van der Wel, Flickr