Cosa può fare Pokémon Go per la conservazione?
È stato definito la soluzione per l'obesità, ma portando i giocatori fuori casa ha anche rivisitato l' ipotesi della biofilia, elaborata dal 1984 da Edward Wilson.
AMBIENTE – A due mesi dalla release ufficiale, il gioco di realtà aumentata Pokémon Go ha raggiunto 500 milioni di download, diventando un fenomeno globale. Centinaia di persone a caccia di Charizard a Central Park, con lo sguardo sullo smartphone in giro per le strade o radunate in modo inquietante davanti alla porta di malcapitati la cui casa era diventata un PokéStop, uno dei punti di interesse “ereditati” da Ingress, il gioco Niantic del 2012 sulle cui mappe si basa Pokèmon Go.
Se Pokémon Go ha un merito è che ha portato i nerd fuori casa. Dopo i primi giorni sugli store Android e iOS già molti si lasciavano andare in dissertazioni su come avrebbe combattuto l’obesità, portando a uscire anche persone dallo stile di vita molto sedentario. Non è mai stato proposto come una health app, ovviamente, ma cacciando Pokémon si cammina parecchio. Persino il British Medical Journal, tra le più prestigiose riviste mediche, vi ha dedicato un editoriale. La app ha trasformato le strade inglesi in “un ambito terreno di gioco, in cui divertirsi in modo interconnesso” scriveva la dottoressa Margaret McCartney. Per completare la sua collezione un giocatore è arrivato a camminare 225 chilometri, perdendo quasi 13 chili. Ma bisogna andarci cauti prima di suggerire che la app combatte l’obesità o il diabete come hanno fatto molti giornali dicendo che “Pokémon Go wants to be the exercise app that actually works” [Pokémon Go sarà l’app per l’esercizio fisico che funziona davvero] o “Childhood Obesity: Pokémon Go Beats Michelle Obama” [Obesità infantile: Pokémon Go batte Michelle Obama].
Si tratta di aneddoti, come sottolinea McCartney su BMJ, e non vanno trascurati gli effetti negativi. Tipo i giocatori recuperati in caverne, in mezzo al mare e nelle situazioni più improbabili, o gli allenatori londinesi che furono rapinati da un gruppo di delinquenti, che hanno sfruttato il banchetto di persone con la testa tra le nuvole offerto da un PokéStop. Ma dal punto di vista scientifico, il “settore salute” non è il solo ad aver visto un potenziale in Pokémon Go.
L’esperienza prevede di esplorare, informarsi sulle caratteristiche dei Pokémon presenti e collegare gli ambienti come acqua, foresta, spiaggia alla loro presenza. Seppur la ricerca non sia poi così sofisticata -esperienza personale: un Horsea può vivere agevolmente tra le rovine di Ostia antica- alcuni conservazionisti non esitano a dire che Pokémon Go è andato oltre il semplice gioco. “[…] fa pensare a un progetto di citizen science estremamente vincente, più che a un videogioco per smartphone”, commenta in un comunicato Leejiah Dorward dell’Università di Oxford, che con i colleghi si è domandato se il successo potrebbe essere replicato indirizzando l’interesse verso il mondo naturale, animali e piante. O ancora, se le ondate di persone che escono di casa per infilarsi anche dove non dovrebbero possono diventare un problema.
In che senso “un progetto citizen science”? Prendete CSMON-LIFE, il primo LIFE nazionale italiano di citizen science sulla biodiversità: oltre a monitorare le specie aliene, organizza eventi di chiamati “BioBlitz” in cui per uno o più giorni i cittadini diventano scienziati e scendono in campo insieme ai ricercatori, per svolgere un’attività di raccolta dati. Prendendo per buono il paragone di Dorward, è come percorrere chilometri di litorale alla ricerca di un Blastoise, o avventurarsi in un bosco per trovare Butterfree (poi però dovreste contarli e misurarli). L’hashtag #Pokeblitz? È già stato usato per indirizzare la caccia ai Pokémon.
Rincara la dose John Mittermeier, dottorando alla Oxford’s School of Geography and the Environment. “L’opinione diffusa è che l’interesse per la storia naturale sia sempre minore e che le persone non abbiano voglia di trascorrere tempo all’aperto, esplorando la natura. Pokémon Go è a un passo di distanza da attività di questo tipo come il birdwatching o la raccolta di insetti: i Pokémon esistono come creature ‘vere’ che possono essere identificate e collezionate, il gioco stesso ha portato la gente fuori di casa. Cosa significa e come possiamo sfruttarlo, come conservazionisti?”.
Il paragone può non convincere, ma si basa su un assunto solido: Pokémon Go ha portato le persone a modificare la propria routine per trascorrere più tempo all’esterno. Giocando in un mondo che non è solo virtuale, scoprono quello “reale” e senza saperlo hanno a che fare con concetti legati alle scienze naturali. Le differenze di habitat, le variazioni di abbondanza di una “specie” e via dicendo. Gli scienziati rincarano la dose: e se rendessero la biologia dei Pokémon più realistica, o aggiungessero animali reali tra le specie che si incontrano giocando? O ancora, se posizionassero più Pokémon fuori dagli ambienti urbani per spingere le persone a esplorare fuori città?
Più realisticamente, la lezione di Pokémon Go potrebbe tradursi in giochi di realtà aumentata nei quali si interagisce con specie esistenti, integrandoli con gli animali negli zoo, negli acquari, o quelli che si incontrano nei parchi naturali. Alzi lo smartphone su uno strano uccello ed ecco che lo “catturi” aggiungendolo alle specie incontrate e ottieni informazioni su di lui (vi ricordate Map of Life? Tipo quella, ma in realtà aumentata e collezionando specie). Ovviamente a questo approccio si possono fare le critiche più svariate. Siamo sicuri di voler trascinare nei parchi naturali persone che non hanno interesse in quest’ambito, rischiando che escano dai sentieri finendo chissà dove? O che esplorare giocando si traduca in una scoperta dell’ambiente reale, che porta ad apprezzarlo di più?
Anche secondo i ricercatori i contro ci sono, ma -un po’ come per la lotta all’obesità- per ora è speculazione. L’interesse per creature fantastiche non necessariamente scatena quello per gli animali e le piante vere. Puoi adorare i draghi ma non uscire mai dalla tua stanza, ergo non c’è ragione di credere che i Pokémon rivoluzioneranno la società. E ancora, portare i giocatori in aree protette non significa automaticamente dotarli di sensibilità, interesse e intelligenza nel viverle: in Olanda, tempo fa, un gruppo di giocatori si spinse su un sistema di dune molto delicato facendo danni importanti. Portare la gente fuori casa non è abbastanza. Non possiamo delegare a un gioco un cambiamento profondo che non ha a che vedere solo con l’esperienza personale, ma con il rispetto per l’ambiente.
Detto questo, l’approccio vincente della realtà aumentata di Pokémon Go può essere un buon punto di partenza per avvicinare “la natura”, che come “l’ambiente” è diventata negli anni un concetto quasi astratto, alla vita di tutti i giorni. Ti basta uno smartphone ed è fatta, puoi esplorare. Non è un approccio nuovo, fa notare Dorward, è la rivisitazione moderna dell’ipotesi della biofilia, proposta nel 1984 da Edward Wilson, secondo il quale la nostra specie ha un’innata tendenza a interessarsi alla vita e ai processi vitali. Un interesse che può portare ad affiliazione emotiva -dunque a desiderare di proteggere ciò che si è scoperto di amare-. La conclusione di Dorward e colleghi? Per portare la conservazione tra il grande pubblico, dobbiamo solo (!) imparare a venderla meglio.
Leggi anche: Dare cibo agli animali selvatici è una buona idea?
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.