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L’invasione di (micro)plastiche del Mediterraneo

Lo stato di salute dei nostri mari, in particolare l'Adriatico, è preoccupante a causa della presenza di elevate quantità di residui di materiali polimerici.

L’Adriatico presenta la maggiore eterogeneità di materiali polimerici e distribuzione degli inquinanti del Mediterraneo: polimeri ad alta densità, PVC, nylon, vernici, paraffina sono alcuni degli inquinanti presenti anche a corta distanza dai fiumi o dai porti. Crediti immagine: Arnoooo, Flickr

APPROFONDIMENTO – Il Mar Mediterraneo è affollato da un’alta concentrazione di particelle polimeriche, che adesso iniziamo a conoscere con maggior dettaglio. Gli sversamenti in mare di rifiuti, di ogni tipo e grandezza, è una minaccia che ha tormentato gli ambientalisti per decenni. Per molto tempo l’allarme è rimasto però spesso relegato a speculazioni di carattere teorico, soprattutto per l’assenza di opportuni strumenti di analisi. Grazie a uno studio dell’istituto ISMAR del Consiglio Nazionale delle Ricerche, condotto in collaborazione con le Università di Ancona, del Salento e l’Algalita Foundation in California, e pubblicato sulla rivista Nature-ScientificReports, dalla teoria si passa alla pratica con un livello di dettaglio finora inedito, soprattutto per quanto riguarda il Mediterraneo, appunto. Secondo lo studio, lo stato di salute dei nostri mari, in particolare l’Adriatico, è preoccupante a causa della presenza di elevate quantità di residui di materiali polimerici. I metodi di analisi delle particelle disperse messi a punto può essere però d’aiuto per identificare e combattere in modo mirato l’inquinamento di specifiche aree, molto più di quanto fatto in passato.

Rifiuti in mare: non solo ‘isole’, ma un problema globale

Come ricordato dagli stessi autori del paper, la produzione globale di materiale plastico è cresciuta in modo esponenzialmente durante gli ultimi 50 anni, arrivando a toccare quota di circa 300 milioni di tonnellate nel 2015, più di 20 volte della quantità prodotta agli albori di questa nuova industria. La pervasività di questi materiali è destinata a crescere, un recente report redatto dalla Ellen MacArthur Foundation prevede, stando gli attuali ritmi industriali, un raddoppio di produzione ogni 20 anni, arrivando a più di 1 miliardo di tonnellate nel 2050. Che fine fa tutta questa plastica?

Che i rifiuti sarebbero diventati un brutto problema da risolvere era chiaro già molto prima della rivoluzione dei polimeri. Nel 1922, la rivista Scientific American metteva in guardia sul destino dei rifiuti domestici con un editoriale dalle idee piuttosto chiare “A garbage crisis”. Ma non sono solo i rifiuti domestici, come gli scarti derivanti dal packaging, da tener sotto controllo, perchè bisogna considerare nel bilancio una parte consistente di prodotti che non passano, ancora, per il filtro del riciclo, mentre il loro ciclo di vita, che comprende anche il degrado spontaneo per l’azione di agenti esterni come luce e agenti atmosferici, termina quasi sempre nei corsi d’acqua e poi in mare aperto.

È questo ormai un fenomeno noto, anche grazie a fenomeni estremi come la famigerata Pacific Garbage Patch, una sorta di isola artificiale di rifiuti che galleggia nell’oceano – descritta da Nicolò Carnimeo in Come è profondo il mare. “Il problema dei rifiuti inquinanti dispersi in mare è diventato oggetto di studio a livello accademico a partire dagli anni ’70”, spiega Stefano Aliani, autore dell’ultimo studio Cnr “Ma non è stato prima degli ultimi 15-20 anni che questo settore è diventato un campo di ricerca sperimentale vero e proprio, grazie all’evoluzione delle tecniche di analisi e soprattutto grazie al supporto di finanziamenti mirati in questo senso dell’Unione Europea”.
Negli ultimi anni, infatti, la letteratura scientifica si è arricchita di dati che descrivono meglio il destino dei rifiuti plastici, rivelando per esempio che quasi il 5% di tutta la plastica prodotta finisce in mare, e che di questa più del 90% si perde, invisibile, nelle profondità delle acque o si deposita lungo le spiagge – secondo Nature tra le più inquinata in assoluto ci sono le spiagge delle Hawaii.

Marine Rubbish’ è il documentario del Cnr che illustra i danni dell’inquinamento da plastiche nelle acque del Mediterraneo, prodotto di recente proprio dall’istituto Ismar-Cnr in collaborazione con il Distretto ligure per le tecnologie marine (Dltm) con l’obiettivo di far capire che si tratta di un problema globale e complesso, in cui ogni area coinvolta si distingue per specifici impatti sull’ambiente. Nel mar Mediterraneo, per esempio, secondo i dati forniti da precedenti campagne oceanografiche, galleggiano macro plastiche – rifiuti in maggioranza prodotti dall’uomo, di grandezza media superiore ai 2 cm – per un totale che si aggira attorno ai 60 milioni di oggetti. Tuttavia, se si fa riferimento alle dimensioni e al peso delle plastiche, si scopre che queste cifre non rappresentano la totalità dei frammenti dispersi in acqua, ma, anzi,  anche nel Mediterraneo si affolla una varietà di inquinanti invisibili.

Il record del Mediterraneo: l’Adriatico è l’area più a rischio

Un’occasione preziosa per aggiornare questi studi è arrivata grazie a una campagna di monitoraggio dello stato ecologico di alcuni tratti di costa durante il progetto CoCoNET , finanziato dal 7 Programma Quadro dell’Unione Europea. Il gruppo di ricerca dell’Ismar-Cnr, guidato da Stefano Aliani, ha avuto infatti l’opportunità di prelevare, a margine di questo progetto, un numero sufficiente di campioni di acqua provenienti da aree di diversa localizzazione, in modalità random, in base a quanto consentito dai mezzi e dalle circostanze dello studio. In laboratorio, le acque campionate sono state analizzate con spettroscopia FT-IR allo scopo di rilevare principalmente la presenza di particelle di grandezza di circa 700 micrometri, mentre una percentuale più piccola del campionamento riguarda particelle non polimeriche o provenienti da materiali naturali (cellulosa, fibre o altro).

Sono 16 le classi di polimeri rinvenute, polietilene e polipropilene in testa per abbondanza, seguiti da alcune poliammidi e vernici. Il dato che impressiona maggiormente in prima battuta è l’abbondanza di queste particelle, relativamente più alta delle concentrazioni in oceano – un record pari a più di 1 milione di particelle per Km2 a fronte di circa 300mila/Km2 del Pacifico Settentrionale – unito alla maggiore dettaglio rispetto alle stime precedenti . “Si tratta sicuramente di dati inediti per il Mediterraneo”, continua Aliani “il contributo più significativo per futuri studi ha a che fare però con la contestualizzazione ambientale di questi numeri”.

L’elevata densità di particelle polimeriche è infatti facilmente riferibile soprattutto alle caratteristiche geografiche del Mar mediterraneo, di fatto un bacino chiuso che non trova possibilità di disperdere altrove i rifiuti, mentre l’elevata eterogeneità della distribuzione di diverse classi di polimeri può essere spiegata in base alle specificità ambientali delle singole aree “La presenza più elevata di un polimero piuttosto che un altro sul totale non è sufficiente a stabilire un intervento di riduzione alla fonte, che non risolverebbe del resto il problema nella sua complessità. È necessario invece conoscere le fonti di inquinamento e i materiali immessi in mare per ogni singola area. Ora abbiamo uno spettro più chiaro”. In questo scenario, è l’Adriatico a presentare maggiore eterogeneità di materiali polimerici e distribuzione degli inquinanti: polimeri ad alta densità, PVC, nylon, vernici, paraffina sono alcuni degli inquinanti presenti anche a corta distanza dai fiumi o dai porti. Queste informazioni vanno in sostanza a definire una sorta di carta d’identità ecologica, che permetterà quindi di intervenire in modo mirato nella tutela ambientale.
“Già dal prossimo anno, lo studio potrebbe continuare perfezionando i campionamenti e le analisi per singola area”, conclude Aliani.

Il lavoro dell’Ismar-Cnr, in un contesto più localizzato, si va a unire a progetti parte di una sfida globale, come  The Ocean Cleanup o 5Gyres.

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.