AMBIENTE

Lo Sri Lanka piange lacrime di sirena

A un mese di distanza dall'affondamento della X-Press Pearl, l'inquinamento da plastica è l'unica certezza di un disastro ambientale di cui sappiamo ancora poco

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: ogni disastro ambientale ne richiama alla mente altri, discostandosene tuttavia per l’amalgama di elementi fino a plasmare un evento inedito. Lo spettacolare incendio che venerdì ha incendiato le acque del Golfo del Messico, innescato da una guasto del gasdotto subacqueo della Petroleos Mexicanos – conclusosi in fretta e apparentemente senza conseguenze degne di nota – ha aggiunto teatralità a una casistica ormai sedimentata. D’altro canto, gli ingredienti a disposizione sono limitati, soprattutto se l’indicente si consuma in mare: età e usura della nave, pericolosità del carico, imprevisti naturali e caratteristiche dell’ambiente. Errori e negligenza umana, provetti pasticceri, dosano quantità e tempi di cottura, aggiungendo sfortuna quanto basta. L’incendio e il conseguente affondamento della X-Press Pearl al largo dello Sri Lanka, avvenuto a cavallo tra maggio e giugno, non si discosta da questa dinamica. Nell’assai poco seducente classifica delle catastrofi, questo incidente rappresenta, con ogni probabilità, il peggiore disastro ambientale della storia del paese asiatico.

L’incendio e il conseguente affondamento della X-Press Pearl al largo dello Sri Lanka, avvenuto a cavallo tra maggio e giugno, non si discosta da questa dinamica. Nonostante i confini siano ancora incerti, l’incidente costituisce, secondo il governo singalese, il peggiore disastro ambientale della propria storia.

(EPA/AVIAZIONE DELLO SRI LANKA, ANSA)

L’incidente

La X-Press Pearl era una portacontainer piccola e moderna – era entrata in servizio appena tre mesi prima dell’incidente – di costruzione cinese e di proprietà della compagnia singaporiana X-Press Feeders. Prima di affondare una ventina di chilometri a nord di Colombo, capitale dello Sri Lanka, la nave aveva fatto scalo nei porti di Jebel Ali (Emirati Arabi), Hamad (Qatar) e Hajira (India). Il 20 maggio, mentre la Pearl si trovava all’ancora al largo di Kepungoda, si innescò nelle stive un incendio che il giorno successivo si era già propagato al ponte.

Secondo la ricostruzione delle autorità dello Sri Lanka, l’incendio sarebbe stato causato da una perdita di acido nitrico nelle stive. L’equipaggio ne era conoscenza da almeno dieci giorni tanto che presentò domanda di scaricare il container fallato sia nel porto di Hamad sia di Hajira. Secondo quanto dichiarato da Tim Hartnoll, amministratore delegato della X-Press Feeder, entrambi i porti rifiutarono di farsi carico dell’operazione poiché sprovvisti di strutture e/o di competenze al momento dell’attracco della Pearl. Fatto sta che la natura infiammabile del carico e i venti monsonici resero vani gli sforzi di domare le fiamme e perfino di rimorchiare lo scafo in acque più profonde da parte di capitaneria di porto, marina singalese e vigili del fuoco. Nemmeno l’intervento della guardia costiera indiana e di esperti accorsi da tutto il mondo riuscì a evitare l’inevitabile: dopo un’agonia di dieci giorni, il 2 giugno la poppa della Pearl cedette e affondò, adagiandosi a 21 metri di profondità. Nei giorni seguenti anche la prua subì, lentamente, lo stesso destino.

Il carico

Secondo quanto sostenuto dalla compagnia, al momento dell’affondamento la Pearl imbarcava 1.486 container, 81 dei quali contenenti merci classificate come “pericolose”. La X-Press Feeder ha ammesso la presenza di 25 tonnellate di acido nitrico – responsabili dell’incendio – nelle stive ma non ha divulgato, almeno pubblicamente, ulteriori informazioni sulle altre sostanze. Secondo l’ong singalese “Center for Environmental Justice”, il carico velenoso comprendeva anche idrossido di sodio, resine epossidiche, batterie litio-ferro, olii ingranaggi e olii lubrificanti, loppa di rame, lingotti di piombo, scarti della lavorazione dell’alluminio e altro ancora. Infine, la Pearl trasportava 28 container contenenti le cosiddette lacrime di sirena o nurdle: microscopici granuli di plastica – in questo caso polietilene ad alta e a bassa densità – che costituiscono la materia prima di buona parte degli oggetti plastici di uso comune, dalle bottiglie ai sacchetti. I serbatoi della nave ospitavano 297 tonnellate di olio combustibile denso (HFO) e 51 tonnellate di olio combustibile marino (MFO), che si ottengono entrambi dai residui pesanti della raffinazione del petrolio dopo aver estratto benzina e gasolio. In altre parole, nafta: uno dei carburanti più economici e al tempo stesso più inquinanti che esistano.

Le incognite

Come detto, il relitto giace al largo di Kepungoda, lungo un tratto di costa su cui si affacciano – oltre alla capitale singalese – diverse località turistiche. Il governo vietò immediatamente agli abitanti di toccare qualunque detrito giunto sulla spiaggia e quindi la pesca per un raggio di 50 miglia nautiche dal luogo dell’affondamento. Una misura necessaria ma tremendamente impopolare considerate le migliaia di pescatori locali che dipendono dal mare per la propria sussistenza.

Per quanto la nafta contenuta tuttora nei serbatoi non lasci dormire sonni tranquilli – la vulnerabile laguna di mangrovie di Negombo è vicinissima al luogo dell’affondamento – la quantità di idrocarburi che potrebbe liberarsi nell’ambiente è relativamente modesta, di almeno due ordini di grandezza inferiore a qualunque incidente petrolifero. Tuttavia, il riserbo mantenuto finora sulla natura del carico dalla Pearl, sia da parte della X-Press Feeder sia del governo dello Sri Lanka, non permette di stabilire la reale entità del danno ambientale: cosa contenevano o contengono tuttora gli 81 container classificati come pericolosi che ora giacciono sul fondo del Mare delle Laccadive? Al 25 giugno le autorità non hanno segnalato perdite rilevanti provenienti dal relitto. La scarsa profondità del fondale sui cui si è posato il relitto dovrebbe agevolare le operazioni di recupero e di bonifica, monsone permettendo.

Lacrime di sirena

Di certo, il moto ondoso ha depositato sulle spiagge una marea lattiginosa costituita dalle lacrime di sirena, rinvenibili fino a un metro di profondità sotto la sabbia. Le operazioni di bonifica sono partite immediatamente, con lo spiegamento di numerosi bulldozer per rimuovere le microplastiche e gli altri detriti giunti sulla costa. Se le operazioni a terra appaiono complicate, ripulire gli oceani da questo tipo di inquinamento pulviscolare è un’impresa destinata al fallimento.

Le lacrime di sirena sono pressoché eterne, piccole, leggere e in più galleggiano: cavalcando i venti e le correnti marine possono raggiungere qualunque angolo del pianeta. L’episodio più grave di inquinamento da lacrime di sirena avvenne a Hong Kong nel luglio del 2012, quando una portacontainer della compagnia China Shipping, in balia di un tifone, perse in mare 6 container contenenti 168 tonnellate di granuli di polipropilene. Come tutte le microplastiche, le lacrime di sirena possono essere scambiate per cibo e ingerite da pesci, molluschi e crostacei, soffocandoli o accumulandosi nei tessuti. Pesce grande mangia pesce piccolo, e così la concentrazione dei composti tossici associati alla plastica per migliorarne le proprietà, come gli ftalati per aumentarne la malleabilità, incrementa a ogni anello della catena alimentare.

Inoltre, dato l’elevato rapporto tra superficie e volume, questi microscopici frammenti finiscono per concentrare vari tipi di contaminanti idrofobici presenti nell’acqua, tra i quali idrocarburi aromatici policiclici, policlorobifenili e pesticidi. Alcune di queste sostanze sono cancerogene, altre sono interferenti endocrini, che alterano cioè la normale secrezione degli ormoni. Una volta ingeriti, questo cocktail di sostanze tossiche può dissociarsi dalle microplastiche e migrare nei tessuti degli organismi. Fino a raggiungere il nostro piatto, con conseguenze tuttora sconosciute.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Davide Michielin
Indisposto e indisponente fin dal concepimento, Davide nasce come naturalista a Padova ma per opportunismo diventa biologo a Trieste. Irrimediabilmente laureato, per un paio d’anni gioca a fare la Scienza tra Italia e Austria, studiando gli effetti dell’inquinamento sulla vita e sull’ambiente. Tra i suoi interessi principali vi sono le catastrofi ambientali, i fiumi e gli insetti, affrontati con animo diverso a seconda del piede con cui scende dal letto.