L’invisibile disastro ambientale della petroliera Sanchi
È una catastrofe del tutto inedita e ancora non si conoscono bene le conseguenze sul lungo periodo. Anche ora che è sul fondale marino, la petroliera non smetterà di danneggiare l'ambiente
AMBIENTE – Non aspettatevi acque nere di pece, gabbiani dalle ali impiastricciate e tartarughe morenti. Il disastro ambientale che si sta consumando nel Mar Cinese Orientale, ma che potrebbe interessare anche il Mar Giallo, è una sciagura diversa e sfuggente, della quale non esistono precedenti a cui aggrapparsi per quantificare la portata del danno e tentare di arginarlo. Al termine di un incendio protrattosi per una settimana, la petroliera iraniana Sanchi domenica sera si è inabissata portando con sé buona parte del suo carico, che consisteva in 136mila tonnellate di condensato dirette verso la Corea del Sud.
Utilizzata principalmente nella produzione di combustibili per aerei o autovetture e, talora di plastica, questa miscela di idrocarburi leggeri è un sottoprodotto della distillazione del gas naturale: si tratta di gas che condensano allo stato liquido a temperature e pressione normali. Rispetto al greggio, il condensato risulta più difficile da individuare, separare e raccogliere poiché è estremamente volatile nonché generalmente incolore e inodore. Inoltre, possiede una discreta capacità di miscelarsi con l’acqua perciò può produrre un profondo pennacchio sottomarino.
La Sanchi non era una cosiddetta “carretta del mare” ma una petroliera moderna, varata nel 2008, di proprietà iraniana e bandiera panamense. A causare l’esplosione che è costata la vita ai 32 membri dell’equipaggio – del quale sono stati recuperati finora appena tre corpi – è stata la collisione con il cargo cinese CF Crystal al largo di Shanghai, avvenuto sabato 6 gennaio. Da quel momento la petroliera è andata alla deriva bruciando ininterrottamente fino al suo affondamento. E proseguendo pure dopo: nonostante gli sforzi di tredici navi antincendio, le fiamme sulla superficie del mare si sono estinto solamente lunedì 15 gennaio.
Mentre in Cina l’Agenzia Oceanica Statale ha prontamente ribadito che l’incidente non rappresenti una grave minaccia per l’ecosistema marino a causa della volatilità del condensato, per lo più evaporato in atmosfera, gli ambientalisti si interrogano sulle conseguenze. Gli sversamenti di condensato sono estremamente rari, tanto che non esistono protocolli per gestirli. Innanzitutto, come spiegato in un’intervista alla BBC dall’oceanografo Simon Boxall del National Oceanography Center di Southampton, a differenza del greggio che può essere naturalmente degradato da alcuni microrganismi marini, il condensato uccide i cosiddetti batteri mangiapetrolio. La diversa densità rende inoltre difficile l’estrazione di questi idrocarburi dalla superficie del mare, rendendo le attuali tecniche poco efficaci.
Le conseguenze di una esposizione a condensato sono altrettanto scarsamente documentate. Dalla scheda di sicurezza (SDS) risulta che esso sia un potenziale agente cancerogeno, provochi gravi ustioni cutanee e sia estremamente tossico se inalato, una fatalità verosimilmente occorsa agli eventuali sopravvissuti dell’equipaggio dopo l’esplosione. Inoltre, è classificato come sostanza tossica per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. Per Greenpeace l’incidente costituisce una grave minaccia all’ecosistema del Mar Cinese Orientale, sottolineando come esso interessi la zona riproduttiva di numerose specie ittiche nonché il percorso migratorio di alcuni cetacei come megattera, balena franca e balena grigia. Un duro colpo non solo per l’ambiente ma anche per l’economia e la salute: il Mar Cinese Orientale è uno dei mari più pescosi del pianeta: il passaggio della contaminazione dal plancton al nostro piatto è purtroppo breve.
Per quanto la catastrofe sia del tutto inedita, numerosi esperti statunitensi la accostano per gravità non tanto all’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 liberò oltre 500mila tonnellate di greggio nel Golfo del Messico, quanto piuttosto allo sversamento avvenuto al largo dell’Alaska nel 1989, quando la petroliera Exxon Valdez urtò una scogliera sommersa rilasciando 35mila tonnellate di greggio in mare. O al naufragio della Haven al largo di Arenzano nell’aprile del 1991 che diede luogo al più grande disastro ecologico avvenuto nel Mar Mediterraneo: alcune migliaia di decine di tonnellate del carico della petroliera cipriota giacciono tuttora sul fondale del Mar Ligure. In realtà è difficile fare confronti. La Sanchi trasportava 136mila tonnellate di condensato a cui ne vanno aggiunte altre mille di olio combustibile. In un’intervista all’agenzia Associated Press Rick Steiner, oggi consulente ambientale di Oasis Earth ma professore di conservazione marina all’Università dell’Alaska durante l’incidente Exxon, ha dichiarato che la petroliera iraniana potrebbe aver perso già oltre metà del proprio carico. Di certo, quello della Sanchi è il più vasto incidente occorso a una petroliera dal maggio del 1991, quando al largo dell’Angola un’esplosione squassò lo scafo dell’ABT Summer, liberando oltre 260mila tonnellate di greggio.
Tornando al presente, secondo l’emittente nazionale cinese lo sversamento della Sanchi interessa un’area di circa 130 chilometri quadrati. Il ministro degli esteri Lu Kang ha annunciato l’avvio di un piano di bonifica per scongiurare disastri secondari su ampia scala. Tuttavia, molto dipenderà dalle forti correnti della regione e dalle condizioni meteo tanto che il governo giapponese monitora in tempo reale la situazione per il timore che la contaminazione possa raggiungere la prefettura di Kagoshima. L’emergenza è tutto tranne che conclusa: per l’ecosistema marino la Sanchi fa più paura adagiata sul fondale che in fiamme e alla deriva.
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