Le luci della ragnatela galattica
Ovvero, come scovare e utilizzare sorgenti di luce remote nello spazio profondo per illuminare l'enorme ragnatela che lo permea. Ricavando in tal modo, grazie alla combinazione di inventiva umana e intelligenza artificiale, le immagini della nascita dell'Universo.
RICERCA – Abbiamo parlato già più volte di esplorazioni spaziali prossime venture (per esempio qui). In attesa di avere, in un futuro prossimo o remoto, gli strumenti per mettersi in viaggio verso lo spazio più profondo, bisogna sfruttare ogni possibile informazione o segnale, per quanto flebile, si riesca a catturare con gli strumenti a disposizione: telescopi, interferometri, satelliti artificiali. Senza dimenticare, naturalmente, modelli matematici e algoritmi.
Nella sua accezione più moderna, l’astrofisica si occupa esattamente di questo: sfruttare l’Universo intero come un laboratorio, non solamente allo scopo di scoprire le proprietà degli oggetti che lo compongono, ma con l’obiettivo ben più ambizioso di determinare nuove leggi della fisica che le scale ridotte dei laboratori tradizionali terrestri non consentono di esplorare. E per studiare la storia dello spazio sconfinato che ci circonda.
Scrutando con i loro strumenti di lavoro, gli astrofisici hanno individuato negli angoli più remoti del cosmo delle regioni sconfinate, in cui la materia è organizzata in filamenti di idrogeno gassoso, che si assumono essere delle tracce residue del Big Bang primigenio.
La densità di questi oggetti è bassissima (si stima in singoli atomi per metro cubo): giusto per avere un parametro di confronto, in un litro di elio, sulla Terra tipicamente sono presenti circa 1022 atomi: proprio così, un 1 seguito da 22 zeri. Cifre da capogiro nel nostro mondo macroscopico, che costituiscono invece la norma sulle scale microscopiche.
Questi filamenti, a quanto pare, compongono titaniche strutture simili a una sorta di ragnatela cosmica, che avviluppa l’intero Universo: miliardi di anni luce di distese impenetrabili e silenti.
Eppure, anche queste gigantesche distese di gas possono essere studiate ed esplorate: ne sanno qualcosa gli astronomi di un team di ricerca dell’Università di Santa Barbara, che hanno condotto per la prima volta in assoluto delle misure sulle increspature della ragnatela cosmica.
L’articolo completo è stato pubblicato su Science e il suo contenuto è assai suggestivo, vediamo di capirci qualcosa più in dettaglio. Il mezzo intergalattico (IGM: InterGalactic Medium) è, appunto, il materiale estremamente rarefatto, organizzato in filamenti, di cui si parlava nella premessa: una struttura enorme, densa poco più della densità media dell’Universo.
Le “strutture di piccola scala” a cui il titolo dell’articolo fa riferimento sono dei dettagli del mezzo intergalattico, circa un centinaio di migliaia di volte più piccoli della dimensione della ragnatela cosmica nel suo complesso: insomma, grandi quanto l’intera nostra galassia.
Come osservare questi dettagli sconfinatamente grandi per i parametri umani, ma nient’altro che minuscole particelle se comparate alla dimensione dell’IGM? Osservando come vengono illuminati da sorgenti di luce ad essi (relativamente) vicine.
E qui entrano in gioco le coppie di quasar. Un quasar (QUASi-stellAR radio source, cioè “radiosorgente quasi stellare”) è una galassia remota che ha nel suo nucleo un buco nero supermassivo in fase di forte attività, che, per questo motivo, emette luce con elevatissima intensità.
Queste sorgenti luminose sono estremamente preziose, fungendo da “retroilluminatori” del mezzo intergalattico, che di per sè è talmente tenue da non emettere alcun tipo di luce. Misurando come l’IGM assorbe la luce è possibile farsi un’idea della sua forma e delle sue proprietà in dettagli di piccola scala. Un po’ come farebbe chi, al buio, dovesse ricostruire i contorni di un oggetto che viene illuminato solo sporadicamente da una luce intermittente, scattando delle foto sincrone all’istante di emissione della luce stessa.
Il problema principale di questa tecnica consiste nella necessità di individuare quasar nello spazio remoto: si tratta di un’impresa assai ardua, visto che tali oggetti sono assai rari. A maggior ragione, trovare delle coppie di quasar è ancora più complicato. E, manco a dirlo, sono proprio le coppie di quasar a fornire le retroilluminazioni più vantaggiose, visto che è possibile tramite esse determinare differenze di assorbimento da due punti distinti e vicini. Tornando al paragone usato prima, è come se il nostro oggetto misterioso notturno fosse visibile, per frazioni di secondo, non da una ma da due angolazioni distinte, grazie a due sorgenti di luce intermittente collocate a breve distanza l’una dall’altra.
Naturalmente sarebbe stato possibile anche utilizzare due quasar non in coppia: tuttavia, le distanze enormi di tali oggetti, quando non accoppiati, non avrebbero permesso di rilevare i dettagli su piccola scala dei filamenti galattici.
A questo punto resta da capire come individuare dalla Terra, nella vastità del cielo stellato, queste rarissime coppie di luci remote. E qui entra in gioco l’innovativo approccio utilizzato dai ricercatori di Santa Barbara: utilizzare l’intelligenza artificiale. Come primo step un’enorme quantità di immagini del cielo notturno è stata processata tramite algoritmi di machine learning, allo scopo di identificare, tra gli ammassi di stelle nel cosmo, le regioni che più probabilmente ospitano le agognate coppie.
Utilizzando poi gli avanzati telescopi del W.M. Keck Observatory di Mauna Kea, nelle Hawaii, le quasar individuate sono state osservate in dettaglio, allo scopo di determinare gli spettri di assorbimento della loro luce da parte dei filamenti galattici.
Tali spettri sono stati confrontati con dei modelli artificiali dell’Universo, sviluppati dai membri del team, che hanno consentito di effettuare un confronto tra le misure e le previsioni teoriche, allo scopo, appunto, di validare i modelli sviluppati. E accreditare, in questo modo, le ipotesi sulla evoluzione dell’Universo dalla sua nascita in essi contemplate.
Aldilà di questa specifica applicazione, negli ultimi anni l’utilizzo di tecniche e algoritmi di intelligenza artificiale si sta affermando in modo sempre più rilevante: solo per fare un esempio, l’ESA (European Space Agency) ha diversi programmi in corso su temi correlati. Possibili applicazioni? La selezione ottimale di costellazioni, o la robotica evoluzionaria applicata agli sciami di satelliti artificiali.
Anche la NASA si sta muovendo da tempo su temi analoghi, promuovendo programmi di ricerca e sviluppo di AI per l’esplorazione e l’analisi delle caratteristiche di pianeti remoti potenzialmente simili alla Terra.
Tornando allo studio sull’IGM, una nota di rilievo è che il primo autore dell’articolo, Alberto Rorai, un giovane astrofisico italiano oggi ricercatore all’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Un dettaglio che dovrebbe inorgoglire visto che, grazie al complesso approccio teorico-sperimentale utilizzato da Rorai e dagli altri membri del suo team, si potranno trarre fondamentali conclusioni sulla storia dell’Universo.
Infatti, determinare la dimensione minima delle increspature consente di capire sotto quale scala di grandezza non ne resta più traccia. Grazie a questi “buchi” è possibile capire quanto calore proveniente dal Big Bang è stato dissipato, e, a partire dalla distanza delle quasar e dei filamenti galattici, anche quando questi fenomeni sono avvenuti.
Realizzando, in tal modo, un vero e proprio filmato che ci racconta la nascita del nostro Universo. E che, di sicuro, ci avvicina un po’ di più a comprenderne i misteri, ancora così molteplici e intricati.
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