SPECIALI

Rio delle Amazzoni e dighe, quando la scienza interviene

Per valutare l'impatto della costruzione di una diga sull'ambiente non possiamo considerare soltanto le zone circostanti: le conseguenze si ripercuotono infatti sull'intero sistema idrografico, e non dovrebbero essere sottovalutate.

Veduta della foce del Rio delle Amazzoni. Crediti immagine: ESA/NASA, Flickr

SPECIALE GIUGNO – Il potenziale energetico del Rio delle Amazzoni e del suo bacino idrografico, il più grande del mondo, è un tema complesso che vede in atto da molto tempo uno scontro tra opposti interessi: da una parte le aziende del settore idroelettrico e dei governi, dall’altra i diritti delle popolazioni autoctone e le istanze delle associazioni ambientaliste.

Secondo un articolo apparso sulla rivista Nature, è arrivato il momento di portare la questione a livello sovranazionale perché in Amazzonia, oggi, “il settore energetico è un’economia a sé stante, dove i governi dei singoli stati attraversati dal Rio delle Amazzoni impongono decisioni dall’alto, ignorando le comunità locali e qualunque processo partecipativo”. Edgardo Latrubesse dell’Università del Texas, insieme a un gruppo internazionale di ricercatori, ha elaborato il Dam Environmental Vulnerability Index (DEVI) che su una scala da zero a cento indica il danno provocato da una diga, esistente o in costruzione, per l’ambiente circostante e per l’idrografia dell’intero bacino sudamericano. Molti studi hanno quantificato l’impatto di una diga “soltanto rispetto alle zone circostanti, ignorando purtroppo il fatto che le conseguenze si ripercuotono sull’intero sistema idrografico”, affermano i ricercatori. Sistema che si estende dalle Ande fino all’Oceano Atlantico per oltre sei milioni di chilometri quadrati tra fiumi, canali e paludi.

La grandezza del territorio attraversato da questo fiume e la difficoltà di costruire impianti per la produzione di energia in un ambiente ricco di biodiversità, definito “il polmone” del mondo, richiederebbe scelte il più possibile condivise. Questo non accade in realtà, come dimostrano le vicende legate all’attuale costruzione della diga di Belo Monte che, progettata per deviare il corso dello Xingu, diventerà la terza diga più grande del mondo. Modificare il corso naturale di questo fiume ha causato la cancellazione di migliaia di ettari di foresta amazzonica e costretto le popolazioni locali ad abbandonare, oltre alle proprie abitazioni, le consuetudini che fanno parte della loro identità e cultura, come la navigazione fluviale e la pesca

Sentieri acquatici si intrecciano nel Rio delle Amazzoni. Crediti immagine: ESA/NASA, Flickr

Anche la pesca, del resto, principale fonte di alimentazione per le comunità dell’Amazzonia, è a rischio a causa dei danni provocati dalla costruzione della megadiga. Secondo le stime dei ricercatori, l’indice DEVI del fiume Madeira, il principale affluente del Rio delle Amazzoni, supererà il valore di 80 qualora venissero costruite le 83 dighe programmate, ma l’importanza di questo fiume non è data solo dalla portata d’acqua. Il 50% del sedimento fluviale del Rio delle Amazzoni deriva da questo sub-bacino che scorre tra Bolivia e Perù che durante il suo percorso, a causa delle dighe esistenti, perde il 20% del fango che si riverserebbe naturalmente nel bacino principale e, quindi, nell’Oceano Atlantico. Sedimenti del Rio delle Amazzoni si trovano nella zona nord occidentale della costa, in prossimità del Venezuela, portando nutrimento alla più importante foresta di mangrovie del Sudamerica e al reef della Guyana francese, un naturale canale di separazione tra i Caraibi e l’Atlantico.

Ancor prima che da ragioni ambientali, la costruzione delle oltre 400 dighe programmate nel Rio delle Amazzoni non è giustificata dal punto di vista economico: nel 2014 un’analisi condotta dall’Università di Oxford e apparsa su Energy Policy dimostra come, in media, i costi per la costruzione di una diga siano così elevati da non poter restituire utili finanziari. La ricerca ha evidenziato come su 245 grandi dighe prese in considerazione, per 75 (tre dighe su dieci) i costi effettivi siano triplicati rispetto alla stima iniziale. Inoltre, a causa dell’inefficienza della rete distributiva, in Brasile il 20% dell’energia prodotta viene persa e per l’attuale situazione di crisi le stime di fabbisogno energetico fino al 2022 sono diminuite del 40%.

Secondo Latrubesse, dopo la diga di Belo Monte è necessario un ripensamento radicale nel modo di prendere decisioni per tutto ciò che riguarda lo sfruttamento energetico del Rio delle Amazzoni: “Se tutte le dighe programmate venissero realizzate gli effetti sarebbero irreversibili, sono a rischio il sedimento che confluisce nell’Oceano Atlantico e il clima dell’intera regione sudamericana. E non esiste alcuna tecnologia che possa ripristinare questo ecosistema unico al mondo”.

Gli autori suggeriscono strategie partecipative che replichino il modello decisionale dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), in cui la scienza rivesta un ruolo fondamentale nel fornire ai decisori politici valutazioni e previsioni sulle conseguenze delle dighe. Per questo suggeriscono l’attuazione dell’Amazon Cooperation Treaty Organization (ACTO), l’organo esecutivo dell’accordo di cooperazione tra Brasile, Bolivia, Colombia, Guyana, Ecuador, Perù, Venezuela e Suriname per lo sviluppo sostenibile della regione amazzonica. Proprio la rivitalizzazione di questo organismo potrebbe assicurare l’applicazione del già esistente Water Management Act, una legge approvata nel 1997 dal Brasile che detta gli standard per una gestione rispettosa, decentralizzata e partecipata delle risorse idriche della regione. Purtroppo, nel 2012 il Brasile ha invertito la tendenza virtuosa dei decenni precedenti introducendo leggi che consentono la deforestazione di ampie zone dell’Amazzonia per la costruzione di dighe, anche in zone di riserva protette.

Per gli autori dello studio è necessario un coinvolgimento della cittadinanza degli stati sudamericani, non solo quelli amazzonici, perché decidano se le ragioni legate alla produzione di energia idroelettrica giustifichino il danno irreparabile che tale sfruttamento causerebbe a un bacino idrico unico al mondo.

Leggi anche: Le foreste pluviali e la ‘grande bellezza’ della natura

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.