IL PARCO DELLE BUFALE

Il revival di un vecchio amaro

La storia di oggi inizia nel Seicento, quando gli scopritori del Nuovo Mondo riportano nel Vecchio le bacche febbrifughe dell'albero della china, Cinchona officinalis.

Diffusione del virus Zika, gennaio 2016, U.S. Center for Disease Control and Prevention, dominio pubblico

IL PARCO DELLE BUFALE – Questa rubrica ha criticato i miracoli attribuiti al Trigno® e dell’AlkaWater® da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità. Oggi si autocritica per aver dato l’impressione che dall’Istituto esca solo fumo.

La storia inizia nel Seicento, quando gli scopritori del Nuovo Mondo riportano nel Vecchio le bacche febbrifughe dell’albero della china, Cinchona officinalis. Per farla breve, la custode del Parco segnala solo che oltre all’antimalarico “Chinino dello Stato“, oggi clorochina privatizzata, ne derivarono acque toniche, vermut e amari. Dagli anni Sessanta l’idrossiclorochina, un analogo della clorochina, veniva prescritta per l’artrite rumatoide e il lupus eritematoso: in Italia la sua storia sembrava finita lì.

Quindici anni fa, iniziarono sul serio le ricerche sul riposizionamento (repurposing) dei farmaci, i tentativi di verificarne l’efficacia per condizioni diverse da quelle contro le quali erano stati sperimentati e approvati.

Buona idea. Da una statistica a occhio delle pubblicazioni su PubMed, tuttavia, non sembra avere grande successo.

Nel 2003 l’epidemia di SARS fa venire in mente ad Andrea Savarino et al. le proprietà anti-virali e anti-infiammatorie della clorochina. Perché non provarla contro patogeni per i quali non esistono altre cure? Sarà stata una buona idea anche questa, perché due anni dopo il loro articolo sul Lancet Infectious Diseases, escono le prime conferme in vitro proprio per i virus e retrovirus che suggerivano.

All’Istituto Superiore di Sanità, intanto, Savarino e il suo gruppo pubblicano studi in vitro e nei macachi sugli effetti di farmaci simili in combinazione con antiretrovirali per curare l’AIDS. Nel 2015 altro allarme a causa dell’arrivo in Polinesia e in America del virus Zika e delle sue conseguenze per i neonati. Nel 2016, gli esperimenti di un gruppo di brasiliani e Savarino mostrano che

la clorochina riduce il numero di cellule infette in vitro e inibisce la produzione del virus e la mortalità cellulare promosse dall’infezione di ZIKV, senza effetti citossici.

Fin qui tutto come previsto, ma in più

Il trattamento con la clorochina ribalta parzialmente i cambiamenti morfologici in neurosfere di topo.

“Parzialmente” e in vitro perché – sospetta la custode – in Brasile come in Italia, non c’erano soldi per gli studi su un numero sufficiente di topi.

Sono stati fatti negli Stati Uniti. Pochi giorni fa, un gruppo dell’università del Washington, finanziato da fondazioni, ha scritto di aver misurato lo stesso calo in vitro nei trofoblasti umani, le cellule che formano la placenta e nutrono l’embrione. Lo hanno poi misurato in vivo in femmine e maschi di topi infettati con il virus Zika e post-mortem nei feti da essi generati, confrontando i risultati con quelli del gruppo di controllo (e relativa prole) che aveva ricevuto un placebo:

l’idrossiclorochina, un’inibitore dell’autofagia approvato per le donne incinte [contro la malaria e malattie auto-immuni], ha attenuato l’infezione placentale e fetale e migliorato gli esiti avversi dell’infezione con ZIKV.

L’autofagia è il riciclaggio dei rifiuti che avviene normalmente nelle cellule sane. I ricercatori identificano il gene collegato che viene disattivato dal virus – uguale in topi e umani – e suggeriscono di valutare l’efficacia di farmaci come l’idrossiclorochina nel mantenerlo attivo e diminuire il rischio che l’infezione – non soltanto da virus Zika – venga trasmessa dalla madre.

È la conclusione di rito per chi sta già progettando esperimenti clinici, ma per organizzarli ci vorranno anni, centinaia di milioni, collaborazioni internazionali, la partecipazione di fondazioni, altri allarmi e foto in prima pagina di neonati microcefali.

Il riposizionamento dovrebbe accorciare i tempi di sperimentazione e rendere il farmaco disponibile in caso di epidemia, dicono tutti a cominciare da Savarino “perché ci sono troppe malattie orfane“. E dall’ex chirurgo Tom Price, ora segretario americano per la Sanità, perché BigPharma sarebbe vittima di troppe regolamentazioni.

Però dal primo articolo di Savarino et al., sono passati 14 anni e quasi novanta ricerche già pubblicate. Però la settimana scorsa, in coincidenza con l’inserto di Science che chiama a una maggiore preparazione per affrontare le “malattie infettive emergenti”, la maggioranza repubblicana del Congresso ha annunciato che non finanzierà più ricerche che utilizzano tessuti fetali umani.

All’Istituto Superiore di Sanità hanno fatto un bel lavoro. Al posto del suo ufficio stampa, la custode lo raccontava in un comunicato sotto un mazzo di Cinchona in fior.

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