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Sulle vie dell’alabastro

La struttura dell'alabastro rende difficile capire in quali botteghe siano stati realizzati i vari manufatti in giro per il mondo. Uno studio pubblicato su PNAS evidenzia una nuova tecnica per tracciare l'origine dei manufatti.

L’industria dell’alabastro è diventata davvero importante in epoca più moderna per la prima volta in Inghilterra, dove le prime tracce di decorazioni di questo tipo risalgono al XII secolo. Crediti immagine: Wolfram Kloppmann/Louvre Museum, Sculptures Department

RICERCA – I materiali lapidei naturali hanno avuto nel corso dei secoli un ruolo fondamentale in arte e in architettura. Per la decorazione di chiese, monumenti e edifici comuni, per la produzione di statue, vasi, manufatti e fregi di diverse dimensioni e forma, gli artisti hanno avuto a disposizione una grande varietà commerciale di pietre ornamentali.
Tra queste, l’alabastro è stato a lungo una delle prime scelte degli scultori medievali e rinascimentali di tutta Europa, in gran parte per la produzione di arte sacra.

L’alabastro, infatti, è un materiale tenero, facile da lavorare, traslucido, e si presta molto bene per la policromia, consentendo una finezza di dettagli che altre pietre non riescono a dare. Insieme ai pregi, questa pietra nasconde tuttavia anche un difetto che, oggi, diventa un grande ostacolo per gli storici dell’arte, per gli archeologi e per i curatori museali: la sua struttura molto compatta e la morfologia regolare, rendono praticamente impossibile risalire alle origini geografiche del materiale grezzo di costruzione, e quindi identificare le botteghe dove i manufatti sono stati realizzati e gli stessi autori delle opere, nonostante si conoscano quali sono stati nei secoli i principali siti di estrazione di alabastro.

Per risolvere questo problema, ricercatori dell’Università dello Utah hanno messo a punto tecniche di identificazione agli isotopi e raccolto dati per un database dedicato all’alabastro, al fine di localizzare con precisione i materiali di costruzione e quindi i percorsi seguiti da opere conservate al Louvre, all’Istituto d’arte di Chicago tra gli altri. Lo studio è stato pubblicato su PNAS.

La pietra degli Dei: dalle cave di Nottingham, alle chiese di tutta Europa

L’alabastro è una variante del gesso molto compatta e a tessitura molto fine – al punto che è risolvibile solo tramite diffrazione a raggi X. Più precisamente, si tratta di una roccia sedimentaria evaporitica composta di solfato idrato di calcio (CaSO4 H2O). Come suggerisce la sua stessa denominazione petrografica, la formazione geologica dell’alabastro è data dalla deposizione di cristalli di gesso in seguito all’evaporazione di acque continentali contenenti solfato di calcio, un processo tipico del permiano e del triassico.

Depositi naturali di alabastro sono presenti in abbondanza in Inghilterra, nelle Midlands (nel Derbyshire e nello Staffordshire), in Francia, per esempio nelle cave di Lagny vicino Parigi, sono molto diffuse anche in Spagna, e in Italia ci sono giacimenti di alta qualità soprattutto in Toscana, nella zona di Volterra, oppure in Piemonte con le Cave di Busca, in provincia di Cuneo.

Gli Etruschi consideravano l’alabastro una pietra sacra, anche nota come Pietra degli dei, la usavano per rituali sacri, per corredi funebri e per rivestire sarcofagi, così come gli Egizi – nell’Antico Egitto, così come in Grecia, era conosciuta per lo più la variante più dura, l’alabastro calcareo o orientale, che prende il nome dalla città di Alabaster, per la produzione di vasi, coppe, scrigni.

L’industria dell’alabastro è diventata davvero importante in epoca più moderna per la prima volta in Inghilterra, dove le prime tracce di decorazioni di questo tipo risalgono al XII secolo – per esempio il portale della chiesa del priorato di Tutbury, nello Staffordshire – e dove si stabilì il centro più importante di produzione di tasselli, statuette e sculture in genere, a Nottingham, città che rimase il riferimento primo e indiscusso dell’alabastro in Europa fino all’epoca della Riforma protestante. Le richieste dei committenti passarono dalle decorazioni funebri alle sempre più frequenti pale d’altare, statue, reliquiari, tavolette, ma anche semplici oggetti devozionali più piccoli e ‘domestici’.

Quando con la Riforma protestante si vietarono anche in Inghilterra le immagini e rappresentazioni scultorie sacre, o si distrussero quelle già esistenti, per il futuro dell’alabastro furono decisive le esportazioni nel resto d’Europa, dove iniziarono a circolare anche lastre di materiale grezzo proveniente direttamente dalle cave.
Ma se fino a quell’epoca, per l’attribuzione delle opere si finisce il più delle volte a Nottingham, nonostante i documenti siano tutto sommato lacunosi, con l’intensificarsi delle esportazioni, le tracce degli alabastri iniziano a perdersi facilmente, salvo i pochi casi ben documentati – come per esempio le pale d’altare italiane a Ferrara o Napoli a Capodimonte, opere in alabastro di origine inglese accertata.

I manufatti in alabastro, anche di piccole dimensioni, così come altri materiali lapidei, sono diventati anche importanti oggetti da collezione, fin dal XVI secolo per esempio con le Stanze delle meraviglie, dove venivano custoditi pezzi pregiati come il Tavolo Farnese. I campioni delle collezioni litografiche, diventano quindi oggetto di studio per la geologia, l’architettura, il restauro e la storia dell’arte.
Se tuttavia non si risolve il tassello iniziale della provenienza geografica, tutti gli altri sforzi di caratterizzazione rischiano di non centrare l’attribuzione storico-artistica delle opere.

In questo senso, le tradizionali analisi di separazione e caratterizzazione geo-chimica non sono sufficienti. Una soluzione la possono fornire le più sofisticate tecniche di indagine isotopica. Dopo un primo studio pilota del 2015, dedicato alle miniere dell’Europa occidentali e firmato da parte degli stessi autori della ricerca pubblicata su PNAS, i ricercatori hanno allargato il database comprensivo di campioni inglesi, francesi, spagnoli e tedeschi e sono riusciti per la prima volta a mappare i siti che hanno tolto a Nottingham il primato dell’alabastro in Europa.

Cinque secoli di alabastro, inseguendo il Papa di Avignone

Le indagini isotopiche sono uno strumento potente al confine tra la chimica e la fisica nucleare. Atomi di uno stesso elemento, ma con diverso numero di neutroni – gli isotopi, appunto – sono rilevabili da una loro impronta caratteristica, che segnala comportamenti fisici diversi, pur mantenendo le stesse proprietà chimiche.
L’ossigeno, per esempio, che ha otto neutroni, prevede tre differenti isotopi stabili (con 8, 9 10 neutroni – 16O, 17O, 18O), e il contenuto di questi nelle rocce dipende per esempio dalla temperatura dell’acqua al momento della cristallizzazione. Così, il meccanismo di formazione geologica dell’alabastro, rilevabile dal fingerprint isotopico, svela molti dati sull’ambiente circostante – comprese informazioni più fini, come le variazioni di condizioni climatiche nel tempo.

Nello studio, i ricercatori hanno analizzato le impronte isotopiche di Ossigeno, Stronzio e Zolfo per i due tipi principali di alabastro – gessoso (CaSO4 H2O) e calcareo (CaSO4) – su 66 campioni in totale tra statue e manufatti (19 provenienti dal Louvre; 13 dal Petit Palais Museum di Avignone; altri pezzi dal Museo delle arti di Cleveland, dall’istituto d’arte di Chicago; da collezioni, gallerie e chiese in Svezia, Inghilterra, Francia).

Di questi, 15 manufatti sono stati identificati come originari delle Midland inglesi; stilisticamente, uno di questi è stato attribuito con certezza alla ‘Scuola di Nottingham’ – un pannello d’altare del 14° secolo frammento dell’ “Arresto di Cristo” conservato al Museo Cluny di Parigi.
Più della metà dei campioni è stata datata al 16° secolo, confermando il boom di esportazione dei materiali grezzi dall’Inghilterra in Francia e in Nord Europa, in seguito alla crisi dell’iconoclastia protestante, prima che iniziasse il declino attorno al 1700. Questo dato è particolarmente evidente, per esempio, dall’analisi agli isotopi del monumento funerario del Re Gustavo Vasa di Svezia, scolpito attorno al 1570 dall’artista fiammingo Willem Boy, e dall’altare monumentale di Calais firmato Adam Lottman, tra il 1624 e il 1628 .

Tra i risultati più interessanti, inoltre, lo studio segnala l’abbondanza di opere non inglesi con composizione isotopica molto omogenea indicativa di origini alpine-francesi. Quasi tutte queste opere (11 delle 66) sono probabilmente ricollegabili al patrimonio in possesso del Papa di Avignone. Questo gruppo è stato poi completato con i dati di altri nove pezzi dal Louvre e sei da altre collezioni, coprendo 5 secoli in tutto, dal 12° al 17°.
Il deposito di alabastro a cui si risale attraverso una traccia isotopica compatibile è il Notre-Dame de Mesage situato nelle Alpi francesi occidentali, a su ovest di Grenoble. Qui la cava di alabastro gessoso è ancora accessibile, e i materiali ben riconoscibili nell’architettura religiosa e nei manufatti locali.

In questi secoli era quindi molto proficua l’industria dell’alabastro nella regione delle alpi francesi, grazie soprattutto alle richieste del Papa, riuscendo così a competere con quella inglese di più lunga tradizione. I commerci comprendevano tutta la zona più orientale della Francia, incrociando tre maggiori bacini fluviali: il Rodano, la Senna e la Loira.
Mappando le rotte principali si è potuto concludere che il Papa d’Avignone era rifornito di alabastro esclusivamente dalle miniere di Notre-Dame de Mesage, nonostante queste fossero più lontane rispetto ad altre e comportavano percorsi anche cinque volte più lunghi. La ragione di questa scelta? Secondo gli autori la scelta dei palazzi papali non era dettata tanto dalla qualità dell’alabastro, quanto dai costi, da sette a nove volte inferiore rispetto al trasporto di terra dei secoli precedenti, e cinque volte rispetto alle tratte contemporanee che riconducevano a Nottingham.

Accertato il ruolo finora ignoto della Francia, il prossimo passo per gli autori dello studio è continuare a seguire le tracce dell’alabastro altrove in Europa, in Germania, in Italia, per spingersi fino ai siti dell’antica Mesopotamia.

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.