STRANIMONDI

Quello che ci è sfuggito nel 2017

Tra cinema e serie tv, alcune uscite del 2017 che non abbiamo affrontato nella rubrica Stranimondi, ma che ci hanno in qualche modo colpito.

A 35 anni dall’uscita di Blade Runner, il film diretto da Denis Villeneuve ricostruisce l’atmosfera del film del 1982 ma evita il confronto diretto.

STRANIMONDI – Nell’ultimo appuntamento del 2017 abbiamo pensato di dare spazio a film o serie che quest’anno, per un motivo o per l’altro, non abbiamo trattato nella nostra rubrica.

(a cura di Marco Boscolo, Livia Marin, Michele Bellone ed Enrico Bergianti)

Blade Runner 2049

Di un ritorno sul grande schermo (o anche piccolo, vedi alla voce Purefold) si favoleggiava da anni. Ci ha costantemente messo sopra il carico da novanta lo stesso Ridley Scott, che oltre ad aver firmato il film originale lasciandolo volutamente aperto per un seguito, ha sempre lasciato intendere che un secondo film ambientato in quell’universo narrativo l’avrebbe sempre voluto fare. A distanza di 35 anni dall’uscita di una pellicola storica per la fantascienza al cinema e per l’immaginario collettivo, i replicanti tornano con una squadra di supporto che si garantisce la direzione di uno dei migliori registi per la fantascienza in circolazione (checché ne dica Michele Bellone a proposito del suo, per me straordinario, The Arrival) Denis Villeneuve. Ridley Scott produce, Hampton Fancher scrive il lungo adattamento e, soprattutto, Roger Deakins dirige una straordinaria fotografia.

Ma al di là di tutto questo, com’è il film? E perché non ne hai scritto quando è uscito? A quest’ultima domanda, rispondo che era un film che toccava un mito talmente gigante che mancava il coraggio di scriverne subito (e, in parte, manca ancora, motivo per cui questo scritto è un suggerimento di visione e non una recensione). Dennis Villeneuve poteva rifare il film originale (come è successo a Episodio VII) o andare in una direzione diversa e comunque lo avrebbero criticato. Blade Runner 2049 funziona perché riesce a ricostruire impeccabilmente l’atmosfera del film del 1982, ma sottraendosi costantemente al confronto diretto. Se la Los Angeles di Ridley Scott era sempre cupa e piovosa, Villeneuve e Fancher decidono di mandare Ryan Gosling (in buona forma) in pellegrinaggio verso Las Vegas, alla ricerca di Harrison Ford, in una luce chiara, quasi da Mad Max, ma perfettamente integrata con l’immagine di Blade Runner che abbiamo in testa: non era facile.

Il film, poi, risulta denso di livelli di lettura (il viaggio dell’eroe tormentato, le domande su chi siamo, cosa vuol dire diversità, cosa è normale e cosa no, il ruolo della memoria di noi nella nostra personalità, l’amore e molti altri ancora) e per questo sono particolarmente grato a Villeneuve per aver scelto lo stesso ritmo medio del 1982, senza lasciarsi tentare di accelerare per risultare più moderno. Secondo alcuni, vedi George Rohmer su i400calci, Blade Runner 2049 rappresenta una lezione a Hollywood su come fare un aggiornamento del franchise in modo intelligente. Indipendentemente da questo, è uno di quei sempre più rari film che ti rimangono in testa a lungo anche molto tempo dopo che lo hai visto e senti la necessità di rivederlo per capirlo fino in fondo. (Marco Boscolo)

American Gods

La serie sceneggiata da Bryan Fuller (lo stesso che ha ideato Star Trek: Discovery) e basata sull’omonimo romanzo di Neil Gaiman è approdata su Amazon Prime Video in primavera, ma per lungo tempo non ce la siamo filata. Anche qui gioca il timore reverenziale nei confronti di uno scrittore di culto che era in stato di grazia (se non lo avete fatto, recuperate il romanzo: lo divorerete in men che non si dica) e il dubbio nei confronti della piattaforma che, The Man In The High Castle a parte, sembrava dotata di un catalogo poco adatto per il fantastico e la fantascienza. Alla fine, attorno all’annuncio che ci sarà una seconda stagione, l’abbiamo guardata e, cospargendoci il capo di cenere, ammettiamo che è una delle cose migliori in circolazione e dovrebbe stare molto in alto in una ipotetica classifica generale del meglio delle serie tv, fantascientifiche o meno che siano.

Lo spunto è tipicamente gaimaniano, con gli dei tradizionali, in particolare quelli americani, che sono minacciati dall’arrivo di nuove divinità. Il rischio concreto è che senza fedeli gli antichi dei siano destinati a scomparire (morire?). I nuovi dei sono incarnazioni, vicine anche esteticamente a personaggi da Black Mirror, della globalizzazione, della tecnologia, dei media. Ma American Gods non è un critica alla modernità che vampirizza le nostre tradizioni, il nostro modo di essere. L’aver scelto come centro della narrazione il viaggio intrapreso da Mr. Wednesday e dalla sua guardia del corpo Shadow lo rende soprattutto un lungo road-movie, con ampi inserti lisergici, in cui le domande fondamentali riguardano le motivazioni della fede, in una interrogazione sulle radici dell’essere umano che ha più del Bob Dylan che dell’Isaac Asimov. Ma fede, in una intenzione anche questa tipicamente gaimaniana, che non indica solamente il carburante delle religioni, ma anche la spinta dell’essere umano a intraprendere qualsiasi tipo di impresa, scienza compresa. (Marco Boscolo)

Ghost In The Shell

Anche in questo caso siamo di fronte a un franchise storico, ma a differenza di Blade Runner 2049, il Ghost In The Shell del 2017 è un vero e proprio remake del film d’animazione firmato nel 1995 da Mamuro Oshii e diventato, assieme al manga originale di Masamune Shirow (1989) un vero e proprio culto, sia della fantascienza che dell’animazione giapponese. Rimettere le mani su un mito di questa porta per trasformarlo in un film live-action era un rischio enorme, ma probabilmente i produttori hanno valutato che un’operazione di questo genere avrebbe potuto avvicinare al franchise un pubblico nuovo che forse si blocca di fronte all’animazione giapponese. Allora, per interpretare il maggiore Mira Killian prendiamo Scarlett Johansson, che da sola dovrebbe garantire il blockbuster e affidiamo la regia all’inglese Ruper Sanders, uno più famoso per aver fatto le corna alla moglie con Kristen Stewart che per i suoi film.

Regia a parte, che non è nemmeno il punto più debole, Ghost In The Shell è quasi un calco del film originale, in alcuni casi anche nelle scelte di fotografia. Mira Killian è un cyborg costruito dalla polizia del futuro per tenere sotto controllo il pericolo terrorismo in un universo cyberpunk quasi archetipico (multinazionali cattive, protesi cibernetiche come il botox, controllo sociale spintissimo, stato non pervenuto e via di questo passo). Killian viene incaricata di sconfiggere una nuova minaccia hacker ma nel processo scopre che non è stata salvata come Robocop, ma è stata proprio progettata a tavolino da chi ora la usa come arma. Ed ecco qui il conflitto interiore che nel manga e nel film originali era il motore principale del film che, con un ritmo lento, lasciava in secondo piano l’azione per concentrarsi sulle riflessioni filosofiche e psicologiche del maggiore Killian. Non che questo sia scomparso nel film di Sanders, ma ha almeno la stessa importanza delle scene di azione, in un’operazione di “semplificazione” del film che probabilmente lo rende più facilmente digeribile dal pubblico occasionale (soprattutto americano), ma che si allontana non poco dall’idea originale di Masamune Shirow e dalla splendida trasposizione di Mamuro Oshii. Un film quindi prescindibile, ma comunque godibile, che ha il pregio di mostrare allo spettatore più attento cosa succede quando si prova a “tradurre” un film da una cultura a un’altra. E in questo senso diventa un oggetto interessante per passare due ore di fronte a uno schermo. (Marco Boscolo)

Seven Sisters

Dopo una lunga carestia gli scienziati mettono a punto nuovi fertilizzanti e tecniche di coltivazione per scongiurare la fame nel mondo: effetto collaterale di queste nuove sostanze è l’aumento incontrollato delle nascite plurigemellari. Con la popolazione in crescita a ritmi velocissimi viene creato il Child Allocation Bureau, guidato da Nicolette Cayman (Glenn Close), e viene instaurata la legge del figlio unico: tutti i neonati che nascono dopo il primogenito vengono prelevati dal Bureau e messi in criosonno, in attesa di una soluzione al problema della sovrappopolazione. In questo contesto nascono sette sorelle gemelle che vengono nascoste alle autorità dal nonno: le cresce e le istruisce permettendo loro di uscire una alla volta, nel giorno della settimana che corrisponde al nome di ciascuna. Per il mondo le sette sorelle sono un’unica persona: Karen Settman (Noomi Rapace). Arrivate a trenta anni, Lunedì scompare nel nulla e le altre dovranno scoprire la verità prima che il Bureau le trovi e le congeli tutte. Se la cornice è di fantascienza, il film, diretto da Tommy Wirkola, in realtà è d’azione e la Rapace dà un’ottima prova delle sue capacità, anche nell’interpretare sette personalità differenti. Ma una delle pecche del film è proprio il carattere stereotipato delle sorelle, appiattito a un singola caratteristica dominante: Lunedì è efficiente, Venerdì nerd, Sabato maliziosa, Domenica devota. Nel complesso è un film godibile anche se – ATTENZIONE SPOILER – l’unico elemento veramente fantascientifico è immaginare che nessuno si accorga che è impossibile tenere tutti i bambini, nati in trent’anni di parti plurigemellari, in criosonno in un unico edificio.  (Livia Marin)

Bright

È il film più costoso prodotto da Netflix, nonché il primo tentativo della piattaforma di streaming di dare vita a un nuovo franchise: Bright è uscito il 22 dicembre ma già si sapeva che avrebbe avuto un sequel nel quale sarebbe tornato Will Smith a interpretare il poliziotto Daryl Ward. E, si spera, anche Joel Edgerton nei panni del suo compagno di pattuglia Nick Jackobi. L’orco Nick Jackobi. Sì, perché la Los Angeles in cui i due lavorano non è la nostra ma una sua versione alternativa, in un mondo in cui le razze del fantasy classico esistono. Nel film, oltre agli orchi, compaiono anche diversi elfi, un paio di centauri e qualche spiritello fatato, ma sentiamo anche parlare di nani, vediamo cartelli riferiti a uomini-lucertola e in una scena scorgiamo addirittura un drago volare in lontananza. Un mix diverso dal solito urban fantasy popolato da vampiri e licantropi o da creature mitologiche, che ricorda soprattutto il gioco di ruolo Shadowrun, con il suo intreccio di tecnologia e magia.

Nonostante sia stato maltrattato da molti critici, Bright è un film riuscito, sicuramente migliore dell’ultima prova del suo regista David Ayer. È costruito sulle dinamiche da buddy cop movie e quindi punta molto sui due protagonisti: se il carisma di Will Smith è ormai assodato, la stella del film è Edgerton, che riesce a dare spessore al suo orco senza renderlo né una macchietta né una spalla secondaria, ma un co-protagonista a tutti gli effetti. Il resto del cast non brilla e la trama non è certo originale, ma il ritmo della narrazione è sempre ottimo e l’ambientazione riesce a essere abbastanza avvincente da far venire voglia di vedere il seguito.

L’ambientazione non viene approfondita troppo: il film si sofferma soprattutto sulle questioni inerenti la trama e sui conflitti razziali, con gli elfi ricchi e alla moda che governano, e gli orchi sul fondo della scala sociale. Si intuiscono però diversi dettagli che lasciano intravedere un world building più ricco, che si spera venga sfruttato a dovere nel prossimo film. Sarebbe interessante vedere se e come verrà sviluppato uno dei pochi temi scientifici citati nel film: l’evoluzione delle diverse razze fantasy. Ne parla Jackobi a proposito del suo olfatto orchesco, molto più sviluppato di quello umano. Altra questione che merita un approfondimento è il legame fra tecnologia e magia, vista l’esistenza di un dipartimento federale che si occupa di quest’ultima. Non resta quindi che attendere il prossimo capitolo. (Michele Bellone)

Twin Peaks

Nei promo che ne hanno preceduto la messa in onda, Sky ha definito la terza stagione di Twin Peaks la serie evento del 2017. Venticinque anni dopo la brusca interruzione, gli inquietanti e misteriosi eventi della cittadina di Twin Peaks ripartono affondando sempre di più nel mistero. Eravamo rimasti all’inquietante risata demoniaca di Dale Cooper davanti allo specchio nella sua camera d’albergo del Great Northern Hotel dopo la sua visita alla Loggia Nera. Sin dai primi minuti della terza stagione David Lynch ci fa capire che se ci aspettavamo risposte semplici e in breve tempo ci eravamo sbagliati. La serie segue un ritmo onirico, lentissimo, visionario e quasi fuori dal tempo. Lynch riprende la sua creatura televisiva facendone un contenitore colmo di richiami al suo cinema, sia a livello di scelte registiche e di narrazione, sia a livello di cast. Un ruolo importante nella vicenda di Dale Cooper tocca alla protagonista di Mulholland Drive, Naomi Watts, mentre Laura Dern (che con Lynch aveva già lavorato nei film Cuore selvaggio e Inland Empire) ha il compito di dare un volto e una personalità alla mitica Diane, il personaggio “virtuale” evocato da Dale Cooper nelle suoi diari registrati a voce. Lynch crea un mosaico complesso e molto difficile da seguire, soprattutto nelle prime puntate, dove i dialoghi sono pochissimi e misteriosi, le parole e le spiegazioni centellinate e i possibili filoni narrativi e di trama continuamente messi in gioco senza alcuna spiegazione e senza alcuna (apparente) connessione. In un periodo dove la serialità televisiva risente (pure troppo) delle aspettative del pubblico, Lynch fa un discorso opposto e pone sé stesso e la sua creazione al centro dello sviluppo: tocca allo spettatore scegliere se e come seguirlo. Certo è che la terza stagione di Twin Peaks non può essere approcciata con leggerezza: richiede grande attenzione e anche una certa preparazione in materia lynchiana per poter essere fruita fino in fondo. Ecco perché chi scrive – che non è un esperto lynchiano – ha trovato estremamente utili i riepiloghi e le spiegazioni fornite dal magazine Sentireascoltare, che ha dedicato a Twin Peaks una rubrica che puntata dopo puntata aiutava lo spettatore a capire fino in fondo ciò che aveva visto e coglierne tutti i numerosi riferimenti cinematografici e televisivi che Lynch si è divertito a seminare nella sua opera. (Enrico Bergianti)

Dragon Ball Super

L’abbiamo già detto in occasione di Stranger Things: di questi tempi la nostalgia tira, e così ecco che un marchio oggi prepotentemente nostalgico come Dragon Ball è tornato nel 2017 con Dragon Ball Super, le cui puntate sono trasmesse in Italia da Italia 1 a partire dal 23 dicembre 2016 (i più nostalgici ne apprezzeranno anche la collocazione temporale: sempre alle 13.45 e prima dei Simpson, fasce quotidiane del Grande Fratello permettendo). L’universo di Dragon Ball è ancora popolato da universi paralleli e pianeti lontani, guerre intergalattiche con signori della guerra e spietati inventori, viaggi nel tempo e onde energetiche. La nuova stagione si colloca temporalmente tra gli eventi del leggendario Dragon Ball Z (il titolo italiano dell’anime è What’s my destiny Dragon Ball) e del controverso Dragon Ball GT. Pochi giorni dopo la sconfitta del terribile Majin Bu, Goku e i suoi amici sono tornati a una vita normale, ma ecco che – come sempre – un nuovo terribile nemico si profila all’orizzonte e dà il via a una serie di eventi fatti di super cattivi super potenti, tornei di arti marziali, il ritorno dell’immancabile Freezer (nostalgia nella nostalgia), il ritorno di Trunks dal futuro, la generosità di Goku, il caratteraccio di Vegeta. Più che una nuova saga – anche perché diversi cortocircuiti temporali ne minano la credibilità e la collocazione fra Z e GT – Dragon Ball Super è un corposo reboot della creazione di Akira Toriyama, una creazione capace di influenzare e emozionare un’intera generazione. Una generazione che oggi ha ormai trent’anni e che continua a rifugiarsi in un’estetica Ottanta-Novanta che oggi più che mai è in forma smagliante. Pensiamo infatti alla serie televisiva di Arma Letale, al nuovo film dei Ghostbusters, appunto a Dragon Ball Super, alla nuova serie dei Cavalieri dello Zodiaco attesa su Netflix, al ritorno di Holly e Benji (con Messi e Cristiano Ronaldo come ospiti) e soprattutto al ritorno del Winner Taco: come cantava Manuel Agnelli, non si esce vivi dagli Ottanta (e Novanta). (Enrico Bergianti)

Leggi anche: Le due metà di Star Wars, Gli ultimi jedi

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Enrico Bergianti
Giornalista pubblicista. Scrive di scienza, sport e serie televisive. Adora l'estate e la bicicletta.