Come sono i sei nuovi episodi di Black Mirror?
È uscita il 29 dicembre la quarta stagione di Black Mirror, la serie di Charlie Brooker prodotta e trasmessa da Netflix.
STRANIMONDI – Come accadeva per la terza stagione, le puntate della quarta stagione di Black Mirror sono sei e non tre come nelle due prime stagioni, ovvero le stagioni prodotte prima del passaggio dei diritti della serie a Netflix. Formato che vince, non si cambia: serie antologica con puntate autoconclusive che mostrano risvolti preoccupanti – a volte cupissimi e agghiaccianti – della tecnologia. Vediamo episodio per episodio i temi di ogni singola puntata. Anche se non riveleremo esplicitamente i finali degli episodi sarà però inevitabile introdurre dettagli e temi che potrebbero in parte anticipare sviluppi che è sicuramente più divertente e appagante scoprire autonomamente.
USS Callister
Se una stagione di Black Mirror fosse un album musicale, “USS Callister “sarebbe un efficace brano di apertura. Non c’è nulla di veramente nuovo nella trama ma il tutto è impacchettato sapientemente in un’estetica che riprende a piene mani da Star Trek, che nell’episodio viene ribattezzata Space Fleet. La “tecnologia deviata” protagonista dell’episodio è il controllo mentale associato a un videogioco creato dal geniale Robert Daly, interpretato dal volto al contempo bonario e inquietante di Jesse Plemons. La tecnologia di quest’episodio non ci è nuova: dispositivi alla tempia e riproduzioni delle persone in una realtà virtuale le abbiamo già viste in Black Mirror (“White Christmas” e “San Junipero”), così come non è certo innovativa l’idea di sdoppiare un personaggio tra mente e corpo. Anche il videogioco è un déjà vu in Black Mirror: si pensi al secondo episodio della terza stagione, “Playtest”. In “USS Callister” il videogioco si chiama “Infinity” ed è una simulazione al quale il giocatore si connette con un dispositivo mentale. Daly ha una versione tutta sua del gioco, dove imprigiona copie virtuali ma senzienti dei colleghi che lo hanno maltrattato o deluso nella vita reale e li obbliga a prendere parte a un eterno gioco di ruolo a tema Space Fleet. Una ispirazione per gli autori potrebbe essere stato l’episodio di Futurama “Where No Fan Has Gone Before”, dove un alieno-nerd obbligava gli attori di Star Trek a recitare un episodio della serie. In Futurama, infatti, gli attori di Star Trek come William Shatner e Leonard Nimoy sopravvivono nel Tremila ma solo come teste senza corpo – così come tante altre celebrità del ventesimo secolo – e l’alieno-nerd, per rendere il suo gioco più credibile, dona agli attori un nuovo corpo e le uniformi della serie: stessa cosa che fa Daly con le riproduzioni digitali dei suoi colleghi. Il finale lascia aperte alcune questioni, probabilmente anche a scapito della coerenza interna della puntata.
Arkangel
Protagoniste del secondo episodio sono Marie e la figlia Sara. Marie decide di proteggere la bambina attraverso Arkangel, ovvero un baby monitor super tecnologico collegato a un sensore microscopico iniettato nel cervello di una persona. Tramite un tablet si può sapere in ogni momento dov’è la persona in cui Arkangel è installato, quali sono i parametri vitali, ma soprattutto il dispositivo consente di vedere e udire tutto ciò che la persona vede, dice e ascolta. Tramite il pad si può anche censurare eventi o discorsi capaci di generare ansia nel bambino. Ben presto Arkangel si dimostra determinante nel salvare la vita anche di altre persone oltre a quella in cui è installato, ma con la crescita della bambina emergono inevitabili i lati oscuri di questa tecnologia, in un intreccio ormai tipico della serie: svelamento del contesto, rivelazione dell’utilità della tecnologia protagonista della puntata, rivelazione delle problematiche e infine sviluppo dei lati oscuri. Arkangel trasforma la vita di Sara in un inquietante Truman Show, consentendo a Marie di avere un totale e malsano controllo sulla figlia. Il finale è violento e brutale, probabilmente eccessivo. L’episodio è diretto da Jodie Foster e, nonostante proponga uno sviluppo degli eventi abbastanza prevedibile, ha un buon ritmo. Bella l’idea di indagare la possibilità di controllo di un genitore su un figlio con anche quesiti morali annessi: fin dove può spingersi la protezione di un genitore? È giusto sacrificare in modo assoluto la libertà di un’altra persona, anche di un figlio, a tutela della sua sicurezza? Fin dove siamo liberi di proteggere qualcuno che amiamo? La puntata ha il merito di muovere tutta una serie di riflessioni e dubbi allo spettatore senza ricorrere a trame complesse o a più livelli come accadeva, per esempio, nella bellissima impalcatura barocca di “White Christmas”.
Crocodile
Strana natura, quella del terzo episodio “Crocodile”. Da un lato, infatti, è probabilmente la puntata con il susseguirsi degli eventi meno credibile, ma propone il finale forse più brillante e fulmineo della quarta stagione. La tecnologia al centro della scena è, indovinate un po’, un dispositivo che si attacca alla tempia e che consente di visualizzare i ricordi su un monitor. Terzo episodio della stagione, terza volta che vediamo un dispositivo cerebrale, per la seconda puntata consecutiva una macchina che consente di vedere la realtà attraverso occhi (in questo caso ricordi, non visioni in diretta come in “Arkangel”) altrui. La puntata pecca un po’ di autoreferenzialità all’interno dell’universo-Black Mirror: quando si parla di riavvolgere i ricordi non si può non citare la terza puntata della prima stagione, “The entire history of you” che parlava esattamente di questo. “Crocodile” non è all’altezza dell’illustre predecessore. Inoltre, questa mancanza di originalità della scena distopica – per quanto in campi narrativi diversi – non aiuta l’episodio a essere veramente incisivo e a uscire dal cono d’ombra dell’ingombrante predecessore. Se ciò non bastasse, la trama si regge su un intreccio da “So cosa hai fatto la scorsa estate” più adatta a Scary Movie che a Black Mirror. Anche la rapidissima deriva morale della protagonista non gioca a favore dell’episodio risultando decisamente troppo veloce, probabilmente immotivata e anche difficilmente realizzabile. Il finale fulminante però vale da solo i 50 minuti che abbiamo investito per arrivare a vederlo.
Hang the DJ
Tornando alla metafora dell’album musicale, “Hang the DJ” rappresenta probabilmente il pezzo più pop e orecchiabile di questa quarta stagione. “Hang the DJ” è un episodio che mette in mostra una tecnologia che finalmente non si applica alle tempie: al centro dell’episodio c’è una applicazione per incontri sentimentali, che non solo consiglia un partner, ma stabilisce in maniera ferrea la durata della frequentazione, oltre alla quale non si può andare. L’episodio inizia con due giovani, una donna e un uomo, che si incontrano al ristorante per un primo e imbarazzato appuntamento. La cena è totalmente organizzata dalla app: essa decide con chi si cena e anche cosa si mangia. Una rigidità che è confermata dal fatto che i due si chiedano se sia possibile assaggiare il piatto dell’altro. Lo sguardo severo di una persona che sembra una guardia posta all’ingresso del ristorante pare in effetti confermare il divieto. Quello che spiazza in “Hang the DJ” è la dimensione eterea e senza apparenti problemi dei protagonisti dell’episodio: non lavorano e non hanno nulla da fare, se non cercare un compagno o una compagna. Vi sembrano dettagli? Come sempre, nei migliori episodi di Black Mirror i dettagli fanno la differenza. Si susseguono gli appuntamenti, e finalmente i protagonisti tornano a uscire, ovviamente per volontà della applicazione, ma decidono di non guardare la durata dell’appuntamento e di vivere la loro nuova relazione alla vecchia maniera. Come è facile immaginare, uno dei due non resiste e guarda la durata della relazione, dando il via all’epilogo dell’episodio. Un finale che è al centro di numerose discussioni: chi lo trova geniale, chi sbagliato, chi troppo positivo, chi troppo negativo. Comunque la si pensi, il finale ha più di un merito: innanzitutto valorizza i dettagli sparpagliati con sapienza qua e là nell’episodio. Inoltre, rende l’interpretazione della puntata molto personale: lieto o no, il finale è aperto a molte letture. Un po’ come la trottola di Inception, sta a noi decidere se lo scenario proposto ci piace o ci inquieta.
Metalhead
Il quinto episodio è all’apparenza il meno spettacolare e il meno coinvolgente, ma a ben vedere ha elementi degni di nota. Intanto, è totalmente in bianco e nero. Ha pochissimi dialoghi. L’episodio inizia con tre persone, due uomini e una donna, che tentano di entrare in una apparente fabbrica abbandonata, presumibilmente per rubare qualcosa. Una volta dentro, però, vengono sorpresi da una specie di cane metallico che uccide sul colpo uno dei due uomini e ferisce la donna, che inizia una fuga rocambolesca. Il cane metallico insegue lei e il suo complice rimasto fuori: lui viene brutalmente ucciso, mentre la donna continua una fuga fortunosa attraverso i boschi. La tecnologia al centro dell’episodio è proprio il cane metallico, in cui, zampe a parte, testa e corpo si fondono (da qui, probabilmente, il titolo “Metalhead”). La puntata è tutta dedicata alla fuga disperata della donna, in un’atmosfera di enorme tensione psicologica che ricorda gli episodi più riusciti di The Walking Dead. La paura di vedere spuntare il mastino robotico all’assalto da un momento all’altro a ogni rumore tiene alte le pulsazioni e l’attenzione, rendendo facile una rapida identificazione con la protagonista. Allo stesso tempo, allo spettatore vengono forniti così pochi dettagli per interpretare il contesto in cui avviene questa fuga che è inevitabile chiedersi: non è che Brooker ci stia prendendo in giro? E se il cane fosse “il buono” e la donna “il cattivo”? Non sarebbe così strano per Black Mirror. Il drammatico finale aiuta a stabilire i ruoli. Inoltre, l’ultima panoramica inquadratura fornisce qualche indizio sui temi e i risvolti inquietanti dello scenario proposto.
Black Museum
La stagione si chiude con un episodio monumentale, dai molteplici livelli di lettura. “Black Museum” condivide con Black Mirror le stesse iniziali e una parola: il Museo Nero è a suo modo anche il Museo della serie, perché tra citazioni dell’ospedale San Juniper, cookie e dispositivi alle tempie (sì, qui tornano e in abbondanza) la puntata offre diversi easter egg e rimandi interni che faranno la gioia dei fan più accaniti che vorranno individuarli. L’episodio richiama la struttura a capitoli già sperimentata nello speciale di Natale “White Christmas”. “Black Museum” è composto da tre episodi in uno: tre narrazioni accomunate dal narratore, ovvero il proprietario del Museo, che racconta a una visitatrice le storie dietro a tre oggetti lì esposti. Tutte e tre le storie sono la messa in scena di quelli che sono temi molto comuni fra gli esperimenti mentali di bioetica e filosofia morale: che cos’è l’identità personale? Esiste l’io senza il corpo? E ultima ma non ultima la più filosofica delle domande, ovvero qual è il confine tra la vita e la morte? Il primo capitolo è impressionante dal punto di vista visivo, estetico e psicologico, un colpo televisivo dritto al volto dello spettatore, che non può che spaventarsi e inorridire davanti alla progressiva follia del protagonista, reso totalmente insano da una tecnologia che serve a rendere possibile sentire ogni sensazione (di piacere e di dolore) provata da un’altra persona. Il secondo capitolo parla della possibilità di far convivere nello stesso cervello due identità personali. Una donna infatti si trova in coma irreversibile dopo un incidente e viene “installata” nel cervello del marito, sopravvivendo così nel suo corpo. La donna può comunicare con l’uomo come “voce nel cervello”, e lui può riferire agli altri le sue parole. Come potete immaginare la convivenza diventa sempre più difficile e il narratore – che è presente in tutte e tre le storie – propone all’uomo due soluzioni, una più inquietante dell’altra, la seconda legata al pupazzo esposto nel Museo. Il terzo episodio raggiunge vette di cinismo e sofferenza come raramente si è visto in Black Mirror. La conclusione del terzo capitolo porta poi alla tremenda conclusione dell’episodio generale e con esso della quarta stagione. Qui l’apparente lieto fine è una tremenda eredità consegnata allo spettatore, che per alcune ore non potrà levarsi dagli occhi la crudezza alla quale è stato esposto. Al netto di qualche passaggio banale (“si sa che usiamo solo il 40% del cervello” poteva essere evitato) così come un paio di didascalici “e dov’è la fregatura in tutto ciò?” che ammiccano un po’ troppo alla curiosità dello spettatore,”Black Museum” chiude la quarta stagione con un episodio che lascia il segno nella storia di Black Mirror .
Un bilancio generale sulla stagione? Black Mirror inizia ad avere già un po’ di puntate alle spalle, per cui inevitabilmente inizia a ripetere temi e idee. Inoltre, ormai lo spettatore conosce lo stile di Brooker e si aspetta finali fulminanti e con colpi di scena, per cui in un certo senso il finale a sorpresa non è più una sorpresa. Ciò, soprattutto nelle puntate con lo sviluppo più prevedibile, rischia di appiattire lo scorrere di quegli episodi in una banale attesa dell’epilogo, e ciò accade soprattutto in “Arkangel”, “Crocodile” e “Metahead”. Anche lo sforzo di immaginazione sulle tecnologie in questa stagione pare un po’ indebolito a favore della maggiore indagine sui modi di sviluppare quelle già viste. Al netto di una fisiologica maturazione, Black Mirror conferma di essere una serie di alta qualità capace di far pensare, inquietare, sorprendere. Una serie che vale assolutamente la pena continuare a guardare.
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