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Le nubi nottilucenti e la mesosfera: servono più studi sul tema

Qualche giorno fa sono state avvistate nei cieli polari e l’estate scorsa nella notte italiana. È un fenomeno che si osserva di rado alle nostre latitudini, con un’incidenza di una volta ogni dieci o quindici anni, forse più

Benché le nubi nottilucenti siano fenomeni noti, a oggi non si conoscono tutti i dettagli della loro formazione. Crediti immagine: Martin Koitmäe, Wikimedia Commons

APPROFONDIMENTO – Le nubi nottilucenti sono formazioni che si trovano in una zona dell’atmosfera, detta mesosfera, dove di solito non vi è alcuna nube. Si tratta della zona atmosferica più fredda e meno conosciuta in assoluto, con livelli di umidità prossimi allo zero. Le temperature qui oscillano dai – 85  ai – 100 °C.

“La mesosfera è collocata tra i 50 e i 100 chilometri di quota. Sembrano distanze piccole, perché si tratta di una distanza inferiore a quella tra Torino e Milano, ma verticalmente queste misure diventano più che significative. La porzione di atmosfera che dà luogo ai fenomeni meteorologici è quella compresa nei primi 10-15 km dal suolo, man mano che si sale l’atmosfera è sempre più rarefatta e la concentrazione di vapore acqueo diventa bassissima (tra un nanogrammo e un microgrammo per metro cubo)”, spiega a OggiScienza Claudio Cassardo, professore associato al dipartimento di fisica dell’Università di Torino.

Benché le nubi nottilucenti siano fenomeni noti, a oggi non si conoscono tutti i dettagli della loro formazione. Inviare micro satelliti o palloni sonda a 85 km di altezza è qualcosa di davvero complesso. L’umidità deve filtrare fino alla mesosfera, raggiungendo un livello di pressione atmosferica che è pari a 1/100.000 rispetto a quella che abbiamo al suolo. Questo presuppone che, affinché si possano formare le nottilucenti a una così bassa pressione, la temperatura debba crollare fino a circa – 125 °C. Come questo accada, però, a oggi rimane per buona parte un mistero.

La mesosfera è stata definita anche “ignorosfera” da molti accademici, a causa dell’esigua quantità di informazioni che si possiedono a riguardo,  come spiega Cassardo: “Gli unici dispositivi che hanno attraversato la mesosfera sono stati gli space shuttle e alcuni razzi. Le stazioni meteorologiche che vengono quotidianamente lanciate da diversi istituti nel mondo si fermano nella stratosfera, il secondo strato in verticale partendo dal suolo: a oggi, non c’è molto interesse a conoscere lo stato delle regioni superiori, perché non sono direttamente coinvolte nella genesi dei fenomeni meteorologici. La difficoltà di misurazione della mesosfera deriva anche dal fatto che, al di sopra dei 30 km, l’atmosfera è sempre più ionizzata (ionosfera), a causa dell’interazione con la radiazione solare. Anche le trasmissioni radio sono difficili da effettuare: gli space shuttle che attraversavano questa regione atmosferica, infatti, si trovavano nella cosiddetta zona muta. Anche se diversi parametri possono essere registrati grazie ai satelliti, la rarefazione presente a simili altezze impedisce la registrazione di una serie completa di dati”.

L’umidità, per potersi condensare in cristalli di ghiaccio, avvolge particelle di polvere meteorica che si trovano nella mesosfera, residui del passaggio di piccole stelle cadenti e meteore che si frantumano nell’atmosfera e lasciano dietro di sé particelle infinitesimali sospese a 85 km di altezza. La prima osservazione di nubi nottilucenti risale al 1884, dopo l’eruzione del vulcano Krakatoa, in Indonesia. Queste formazioni si possono osservare più facilmente nell’emisfero nord solo d’estate, dal cinquantesimo al sessantacinquesimo parallelo, nella zona subpolare, che comprende paesi come la Scozia, la Danimarca, la penisola scandinava, l’Islanda, il Canada e la Russia. Si tratta delle stesse latitudini a cui si può osservare con facilità l’aurora boreale, ma i due fenomeni hanno origini completamente diverse.

Negli ultimi anni il fenomeno è divenuto più frequente; uno studio intitolato “Analysis of northern midlatitude noctilucent cloud occurrences using satellite data and modeling”,  pubblicato sul Journal of Geophysical Research nel 2014, indagava le cause dell’aumento delle nubi nottilucenti registrato dal 2002 al 2011, cercando di capire in che modo questi fenomeni fossero correlati con i cambiamenti atmosferici e climatici del nostro pianeta. Lo studio utilizzava i dati di varie missioni NASA Aeronomy of Ice in the Mesosphere e Thermosphere Ionosphere Mesosphere Energetics and Dynamics, i dati della missione Aura, le osservazioni dello strumento Osiris del satellite svedese Odin e quelle dello strumento Shimmer della missione STPSat – 1 del Dipartimento della Difesa statunitense. Le informazioni sull’atmosfera e sulla presenza di vapore acqueo sono stati immessi in un modello di simulazione creato da Mark Hervig della GATS, piccola azienda aerospaziale dell’Idaho, che vanta tra i propri partner anche la Nasa. L’output ottenuto combaciava con le osservazioni delle nuvole nottilucenti del periodo in oggetto e il modello è stato quindi validato.

“Parlare di clima significa parlare di almeno trent’anni di misure e sicuramente, per quello che riguarda le nubi nottilucenti, non abbiamo un simile dataset di misure continuative. In una giornata normale, infatti, non siamo in grado di vedere le nubi nottilucenti, che si possono osservare solo in condizioni molto particolari, ovvero a tramonto avanzato o poco prima dell’alba, quando in atmosfera è osservabile un certo chiarore del cielo. Per questa difficoltà di osservazione, non esistono classificazioni quantitative relative alle nubi nottilucenti,  ovvero non possediamo misure giornaliere che possano stabilire se queste nubi sono effettivamente aumentate o meno. Esistono misure estemporanee che però non sono state effettuate a cadenza regolare”, commenta Cassardo.

Gli studi che ipotizzano una possibile connessione tra aumento delle nottilucenti e cambiamento climatico postulano un collegamento tra un aumento di quantità o di frequenza di queste nubi e una diminuzione di temperatura nella mesosfera, perché a temperature inferiori il vapore acqueo tende a condensare. “Ci sono solo due possibilità che possono giustificare l’aumento di queste nubi: una maggiore presenza di vapore acqueo, o una diminuzione delle temperature, come postulato da questo studio. A quelle quote, la maggiore presenza di vapore acqueo è da escludere, perché non esistono sorgenti. Al suolo, un incremento delle temperature aumenta l’evaporazione, che però non arriva fino alla mesosfera.

Anche la distribuzione delle temperature nell’atmosfera terrestre presenta situazioni complesse, perché siamo di fronte a un sistema non lineare che non offre risposte univoche: un quantitativo maggiore di radiazione solare può scaldare alcune aree dell’atmosfera e raffreddarne altre. Ad esempio, in questi anni certe regioni della stratosfera sono più fredde rispetto a un secolo fa. Sicuramente si è registrato un cambiamento nella radiazione solare o nel comportamento dell’atmosfera alla radiazione solare, perché un’atmosfera ricca di gas serra risponde ovviamente in modo diverso. Anche questa distribuzione di temperatura a strati favorisce l’estrema stabilità di alcune regioni dell’atmosfera, come la stratosfera e la termosfera,  che si trovano rispettivamente sotto e sopra la mesosfera. Per le particelle di vapore acqueo diventa quindi impossibile arrivare nella mesosfera: per incrementare il vapore acqueo: in questa regione atmosferica servirebbe una quantità elevatissima di meteoriti, oppure delle esplosioni violentissime sulla superficie terrestre”, spiega Cassardo.

Sono numerose le ricerche in corso che stanno cercando di far luce sulla mesosfera. Anche il miglioramento delle analisi satellitari potrebbe favorire gli studi in quest’area, come spiega Cassardo: “Ogni volta che viene lanciato un nuovo satellite, abbiamo un miglioramento nella quantità e nella qualità dei dati che è possibile raccogliere. Abbiamo due principali tipologie di sensori: un primo modello, che osserva da oltre l’atmosfera terrestre verso la Terra, e un secondo tipo, che registra i dati dal basso verso l’alto. Man mano che passa il tempo, questi strumenti sono sempre più sofisticati e coprono un numero sempre maggiore di bande: i primi satelliti coprivano solo il visibile, l’infrarosso, il vapore acqueo e l’ultravioletto per studi speciali.

I satelliti stazionari che si utilizzano oggi coprono oltre una trentina di bande per quanto riguarda i fenomeni meteorologici. Il satellite, però, osserva ciò che interagisce con una determinata radiazione, ma se l’atmosfera non reagisce non è possibile registrare dati. Si possono quindi osservare i composti che generalmente reagiscono, come anidride carbonica, ozono, molecole di vapore acqua, acqua allo stato liquido o solido. Le nubi nottilucenti non vengono praticamente viste dai satelliti, perché sono troppo tenui. Per effettuare misure nella mesosfera, bisognerebbe inviare dei razzi, ma si tratterebbe di programmi di ricerca costosissimi. Se si dovesse rafforzare l’ipotesi di una connessione coi cambiamenti climatici, qualche ente potrebbe però decidere di lanciare programmi di ricerca per intensificare le misurazioni in questa regione dell’atmosfera”.

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Sara Moraca
Dopo una prima laurea in comunicazione e una seconda in biologia, ho frequentato il Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste. Da oltre dieci anni mi occupo di scrittura: prima come autore per Treccani e De Agostini, ora come giornalista per testate come Wired, National Geographic, Oggi Scienza, La Stampa.