Genetica del successo II: i motivi del suo insuccesso
In vent'anni i geni dell'intelligenza sono mutati in geni "dell'educazione", "del successo" e "della mobilità sociale". Non dovremmo crederci.
IL PARCO DELLE BUFALE – Nell’articolo anticipato online il 9 luglio dai Proceedings of the National Academy of Science, “Genetic analysis of social-class mobility in five longitudinal studies“, il genetista Daniel Belsky e i suoi colleghi postulano che la maggior intelligenza sia dovuta a varianti geniche, gli alleli, che sommati in un “punteggio poligenico” fanno prevedere il successo negli studi, nella carriera, nel business, nella mobilità sociale di singoli individui.
Pensano di dimostrarlo confrontando le osservazioni a lungo termine effettuate su cinque campioni di popolazione, le “coorti”:
- l’Add Health Study americano e il Dunedin Study neozelandese raccolgono dati diversi sullo sviluppo durante l’adolescenza e la salute;
- l’E-Risk Study concluso nel 2014, riguarda i risultati scolastici e i comportamenti di gemelli inglesi e gallesi tra i 5 e i 18 anni;
- il Wisconsin Longitudinal Study raccoglieva a scadenze più o meno decennali fino al 2011 dati sociologi e medici su persone diplomate nel 1957;
- lo Health & Retirement Study americano valuta ogni due anni l’evoluzione della salute e della condizione sociale di pensionati.
Pere e mele, e capre e cavoli insomma.
Tra i fattori di confusione, ci sono differenze etniche e quindi di ceto sociale, di accesso all’educazione/informazione e alla sanità. Gli autori saltano la difficoltà principale a piè pari applicando una serie di statistiche unicamente agli individui “con ascendenze europee”. Attribuiscono loro punteggi poligenici, le probabilità di successo, non sulla base dei loro geni, ma di quelli nelle banche-dati, dai quali gli algoritmi dei Genome-Wide Association Studies (GWAS) traggono “associazioni”.
L’eterogeneità delle fonti sarebbe un problema risolvibile con statistiche più sofisticate dei soliti valori p se le misure dell’intelligenza, dell’educazione e del successo fossero altrettanto precise di quelle – altrettanto correlate – del peso, dell’altezza e del salto con l’asta. Gli autori ne sono consapevoli. Le loro ultime scoperte in “genetica del successo” hanno tre limiti, scrivono:
- “Primo, la nostra misurazione genetica è imprecisa. Il punteggio poligenico per l’educazione spiega soltanto una frazione della stima dell’influenza genetica totale sull’educazione. “
Tradotto: non troviamo le varianti geniche, ma da qualche parte ci saranno.
- “Secondo, le analisi non escludono del tutto storture [bias] potenziali dovute a stratificazioni della popolazione, alla configurazione non casuale dei genotipi fra diverse ascendenze.”
Vale per le popolazioni con “ascendenze europee”. In USA. Gran Bretagna e Nuova Zelanda, gli immigrati si raggruppavano e tendevano a non sposare estranei.
- “Terzo, la genetica del successo socio-economico e la mobilità possono variare leggermente fra coorti nate in periodi diversi, un presumibile riflesso dei cambiamenti nel contesto sociale del successo”.
Leggermente? Il contesto sociale in cui erano cresciuti i diplomati del Wisconsin nel 1957 è ben diverso di quello in cui crescono i gemelli nati a fine anni Novanta in Gran Bretagna. Gli autori propongono di rimediare al terzo limite aggiungendo ricerche socio-economiche ai punteggi poligenici e vice versa. Sarebbe un modo per moltiplicare le imprecisioni di entrambi, non ci provano nemmeno.
Concludono lo stesso che, grazie alla “genetica scoperta nei GWAS”, i punteggi poligenici identificheranno gli “ambienti” che vengono “plasmati” dai geni dell’intelligenza, via via mutati in geni “dell’educazione”, “del successo” e della mobilità sociale. Nel frattempo, quei punteggi
possono suggerire interventi che cambiano l’ambiente dei bambini e promuovono lo sviluppo positivo nell’arco della vita.
Una pubblicazione non fa primavera, ma rassegne incluse, le note ne contengono centinaia. Le più citate sono firmate proprio da autori che difendevano le tesi razziste de libro La curva a campana, si diceva nella prima puntata: il quoziente d’intelligenza massimo nei nord-europei e minimo negli africani (e l’effetto Flynn allora?), gli askenaziti che diventano miliardari a Wall Street, gli immigrati dai paesi poveri che abbassano il quoziente dell’intelligenza americana…
Robert Plomin, Daniel Belsky et al. non sono razzisti, no, no, ma preconizzano la vecchia soluzione dell’uomo bianco: cambiare “l’ambiente dei bambini” autoctoni trasferendoli in uno per razze inferiori.
Nota
Sull'”impotenza predittiva” dell’indice poligenico, si veda l’articolo di Ed Yong e la spiegazione dei ricercatori che hanno scoperto 1.271 alleli associati all’11-13% della differenza nell’educazione di 1,1 milione di europei.
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