Psicopatia: tra genetica, anatomia e legge
Pietro Pietrini, Direttore della Scuola IMT Alti Studi Lucca, ci aiuta a fare chiarezza su questo disturbo della personalità e le sue implicazioni giuridiche
Il cervello è un organo complesso e in continuo mutamento. Le connessioni tra i neuroni aumentano, diminuiscono, variano in base a ciò che impariamo, alle esperienze vissute, all’ambiente circostante. Per questo le malattie psichiatriche sono così difficili da studiare. La questione si fa particolarmente intricata quando si ha a che fare con i disturbi di personalità, come la psicopatia.
Numerose ricerche hanno cercato di identificare anomalie caratteristiche del cervello degli psicopatici, o i geni “della violenza”, delle mutazioni nel Dna che possono essere associate a questo disturbo mentale. Tuttavia non sono mai stati identificati dei parametri oggettivi che riflettano la funzionalità psichica e che permettano di effettuare una diagnosi.
“Lo psichiatra stabilisce se un paziente è affetto da una malattia mentale andando a guardare la storia del soggetto, parlando con il paziente, effettuando dei test che possono confermare o smentire le sue ipotesi”, racconta il Professor Pietro Pietrini, Direttore della Scuola IMT Alti Studi Lucca, in un’intervista a OggiScienza.
La psicopatia è un disturbo antisociale di personalità caratterizzato dall’impossibilità di provare empatia, rimorso, di immedesimarsi nell’altro. Il paziente non ha alcun rispetto delle norme morali, intese come regole comunemente condivise in un dato contesto sociale. Il questionario usato per misurare il grado di psicopatia è il Self-Report Psychopathy Scale. Il test non fa emergere delle caratteristiche che riguardano esclusivamente un malato: tutti possiamo presentare qualche tratto proprio della psicopatia, che emergerebbe rispondendo alle domande, lo psicopatico presenta però punteggi significativamente più alti.
I criminali sono malati?
Studi “antichi”, risalenti agli anni ’80 e ’90, condotti in diversi Paesi tra cui Stati Uniti e Inghilterra, hanno riportato tassi di psicopatia particolarmente elevati tra i carcerati (oltre il 20% dei soggetti valutati potevano essere considerati psicopatici), superiori rispetto a quanto osservato nella popolazione generale. Si potrebbe dedurre che la psicopatia “spinge” in qualche modo alla criminalità. Potrebbe essere la causa di comportamenti criminali? In questo caso una quota dei criminali potrebbe essere considerata “malata”?
Secondo lo psichiatra inglese Henri Maudsley, nel caso degli psicopatici che commettono crimini, non si può parlare di “colpa”. Scriveva nel 1929: Così come ci sono persone che non possono distinguere certi colori, affette da cecità per i colori, e quelli che non riescono a distinguere un tono dall’altro, ce ne sono alcune che sono completamente prive di qualsivoglia senso morale. “Possiamo dire che per alcuni pazienti con disturbo antisociale della personalità commettere crimini è un sintomo, così come il tossire per i pazienti con la bronchite”, precisa Pietrini.
Si tratta però di malati che difficilmente decidono di farsi curare. “Una persona depressa o ansiosa, si rivolge allo psichiatra perché soffre, lo psicopatico, spesso chiamato anche sociopatico, per definizione fa soffrire la società, non se stesso”, aggiunge il Professore. “Molto spesso queste persone vanno in terapia perché emergono altri problemi o perché obbligati, e il disturbo è comunque molto difficile da affrontare. È forse una patologia anche meno studiata in termini di ricerca farmacologica”.
Pietrini è esperto in psichiatria forense, e ci spiega che in realtà, nell’ambito di un processo in cui si valuta la colpevolezza di un soggetto che risulta psicopatico, si tende a considerare l’imputato sano di mente, perché la sua capacità di intendere e di volere non è compromessa. “Il disturbo antisociale di personalità secondo molti non rileva ai fini dell’imputabilità, forse perché è troppo comune. Emerge però una contraddizione, perché parliamo di un disturbo, di una patologia, non la definiamo una ‘condotta antisociale di libera scelta’”. L’argomento attualmente è oggetto di un intenso dibattito tra gli esperti del settore. Anche perché, con la sentenza Raso di 15 anni fa, viene ravvisata la natura di “infermità” rilevante giuridicamente anche nei disturbi di personalità, purché questi siano considerati gravi.
Ecco che torniamo alla difficoltà di una diagnosi psichiatrica obiettiva. Come definiamo la gravità di un disturbo di personalità? “Io stesso ho preso parte alla discussione di diversi casi in cui periti e consulenti, più di 10 esperti in tutto, pur concordando tutti sulla presenza di un disturbo, non erano d’accordo sulla sua gravità”.
A caccia del gene della violenza
Pur ammettendo di trovarci di fronte a una patologia grave, pur ammettendo che i criminali psicopatici siano persone spinte ad azioni violente a causa di una patologia, resta da scoprire quale sia la causa del disturbo mentale. Come moltissime altre malattie, l’origine risiede in parte nella genetica e in parte (una porzione particolarmente rilevante), nei fattori ambientali.
Da un punto di vista genetico sono state identificate delle mutazioni puntiformi del Dna in geni deputati alla produzione di proteine (neurotrasmettitori, enzimi e recettori) necessarie alla comunicazione tra neuroni, che sembrano predisporre gli individui alla violenza, alla criminalità, a comportamenti anti sociali.
“Gli studi condotti sui gemelli monozigoti, sui gemelli eterozigoti, sui comuni fratelli e sugli adottati sono di grande aiuto per valutare le componenti genetiche e le componenti ambientali di una malattia”, osserva Pietrini. Questo perché due gemelli monozigoti condividono l’ambiente e dispongono dello stesso corredo genetico, due gemelli eterozigoti invece hanno un Dna diverso, quanto quello di due comuni fratelli, ma si presuppone che, almeno fino a una certa età, vivano nello stesso ambiente, sottoposti a stimoli simili. Due fratelli nati a diversi anni di distanza invece sono cresciuti anche in ambienti leggermente diversi. Le ricerche su individui adottati da piccoli consentono infine di distinguere biologia e ambiente. Ecco, da questi studi emerge un rischio familiare, in parte biologico, di sviluppare un disturbo antisociale di personalità.
Le nuove tecnologie hanno poi permesso l’analisi dell’intero genoma di moltissimi individui, e quindi di valutare l’effetto di una combinazione di mutazioni diverse (il poligenic risk score). “Non esiste però – osserva Pietrini – alcuna variante genetica che determini un comportamento, negativo o positivo che sia”.
Forse, con una singola eccezione. Nel 1993, il Professore di genetica Han Brunner, ha identificato, con il suo gruppo di ricerca una mutazione puntiforme nel cromosoma X, al livello del gene che codifica per l’enzima monoamino ossidasi A (MAO-A). Questa particolare mutazione porta alla produzione di una proteina tronca e per nulla funzionante ed è stata riscontrata solo in una famiglia, i cui componenti maschili (ne sono stati valutati cinque nello studio) avevano una storia di aggressioni, incendi dolosi, tentativi di stupro ed esibizionismo. “Da allora, non è stata mai più identificata una mutazione che porti a conseguenze così gravi sul comportamento”.
Altre mutazioni nel gene MAO-A, che portano alla produzione di livelli inferiori di proteina rispetto alla norma, sono state associate, a volte a comportamenti antisociali, altre volte a un leggero ritardo mentale. In questi casi il ruolo dell’ambiente, dei fattori sociali ed economici è risultato molto rilevante.
Di certo non esiste un gene della violenza, o della criminalità. C’è la possibilità che ci sia una combinazione di variazioni genetiche che, in base all’ambiente circostante, aumentino la probabilità di un comportamento violento.
L’interazione tra geni e fattori ambientali è estremamente complessa e, nei casi delle malattie mentali ancora poco chiara. Proprio in questi anni, ci racconta Pietrini, i ricercatori della scuola IMT di Lucca con l’Università di Pisa, stanno studiando delle alterazioni genetiche che sembrano aumentare la permeabilità degli individui all’influenza dell’ambiente. In altre parole, se una persona che presenta una particolare mutazione in quei geni cresce in un ambiente positivo, avrà una maggiore probabilità di assumere comportamenti prosociali. Invece, un individuo con la stessa mutazione che cresce in un ambiente negativo avrà maggiori probabilità di sviluppare un comportamento antisociale.
Secondo Pietrini, è difficile che esistano componenti genetiche tipiche di un singolo disturbo mentale, della depressione per esempio o, appunto, della psicopatia. “Ritengo più probabile che esista una componente genetica che influenzi i singoli aspetti psicopatologici e comune tra diverse malattie. E questo forse è uno dei motivi per cui la ricerca ha fallito nell’individuare uno o più geni che sottendono una malattia mentale”.
Il dilemma dell’uovo e della gallina
Abbiamo parlato delle ricerche sulla genetica della criminalità. Altri studi valutano le alterazioni cerebrali che potrebbero essere associate alla psicopatia. Fin ora i ricercatori si sono concentrati su alcune aree del cervello: “sono coinvolte l’amigdala – costituita da un piccolo gruppo di nuclei nervosi situati nel lobo temporale dell’encefalo – che processa le emozioni e la corteccia prefrontale, che è il centro di modulazione del comportamento e del senso morale”, continua Pietrini. “Una nostra ricerca che risale al 2000 ha mostrato per la prima volta, tramite tomografia a emissione di positroni (PET) cosa succede in un individuo giovane e sano quando immagina di diventare aggressivo. I risultati hanno messo in evidenza uno ‘spegnimento’ della corteccia orbitofrontale, deputata al controllo del comportamento”.
Sono stati descritti numerosi casi in cui pazienti che presentano delle lesioni in queste zone della corteccia manifestano alterazioni significative del comportamento. Uno dei più antichi e famosi è quello di Phineas Gage, un muratore vissuto nel 1800 che, a seguito di un’esplosione accidentale durante il lavoro, fu trafitto nella parte frontale del cervello da una barra di metallo. L’incidente non ha minato la sua salute fisica, il giovane si è ripreso dopo qualche mese, ma ha mutato profondamente la sua personalità, rendendolo “irriverente, anafettivo, capriccioso, blasfemo e inaffidabile”, riportano gli scritti dell’epoca.
Lesioni di questo tipo sono evidentemente la causa del cambiamento nel comportamento. Ma attenzione. Gli studi sulla morfologia del cervello cercano un’associazione tra la dimensione di determinate regioni cerebrali e i disturbi mentali, in assenza di una qualunque lesione. Correlano lo spessore della corteccia cerebrale o le dimensioni dell’amigdala, con un grado più o meno elevato di psicopatia.
Queste ricerche vanno analizzate con cura e relativizzate, vista la natura estremamente mutevole dell’organo in questione. È davvero difficile associare la morfologia del cervello, che cambia in continuazione, in base a ciò che facciamo e ciò che apprendiamo, a un disturbo mentale.
Pietrini lo spiega bene con un esempio. È stato osservato che i soggetti depressi presentano un ippocampo (struttura cerebrale situata vicino all’amigdala), particolarmente piccolo. Nel processo di guarigione dalla depressione le dimensioni dell’ippocampo aumentano nuovamente. Questa regione del cervello però, è anche deputata alla memoria. Uno studio del 2000 ha mostrato che i tassisti londinesi, costretti a imparare a memoria tutte le strade della città per ottenere la licenza, presentano un ippocampo più voluminoso della media. Ecco che, una stessa regione cerebrale svolge compiti molto diversi tra loro, e le sue dimensioni possono variare in base a fattori differenti.
“Nei criminali è stata osservata una riduzione significativa della corteccia prefrontale. Questo accade perché sono criminali, oppure la permanenza in carcere e l’essere criminali ha portato ad un cambiamento nella corteccia? Le loro caratteristiche cerebrali sono determinate dalla genetica e sono immutabili oppure l’essere criminali modella il loro cervello, come accade per un tassista londinese?”
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