Per non tornare al buio. Conversazione con Livia Turco su aborto e legge 194
Dal clima sociale e politico che nel 1978 ha portato all'approvazione della legge sull'interruzione volontaria di gravidanza ai fattori che oggi rischiano di metterla sotto scacco. Con un appello per una nuova, potente, mobilitazione femminile.
APPROFONDIMENTO – Da quarant’anni c’è nel nostro paese una legge “buona”, nel senso di legge che funziona e che raggiunge gli obiettivi che erano stati previsti quando è stata approvata: la legge 194 del 1978 sull’aborto. O meglio, come recita il testo, su “tutela sociale della maternità, riconoscimento del diritto alla vita e interruzione volontaria della gravidanza”.
Eppure da quarant’anni questa legge è perennemente sotto attacco, tra chiari tentativi di riforma e depotenziamenti più o meno consapevoli dell’apparato organizzativo necessario alla sua piena applicazione, dai consultori al personale medico non obiettore. Così, se con la sua approvazione si è accesa una luce potente sui temi della libera scelta, dell’autodeterminazione femminile, della procreazione cosciente e responsabile, periodicamente corriamo il rischio che quella luce si spenga e che le donne di questo paese si trovino costrette a tornare nel buio feroce della mancanza di diritti e dell’aborto clandestino.
Proprio Per non tornare al buio si intitola il libro su 194 e obiezione di coscienza che Livia Turco, a lungo parlamentare, ministra della Salute del Governo Prodi (2006-2008), presidentessa della Fondazione Nilde Iotti, ha scritto un paio d’anni fa con la giornalista Chiara Micali. E che oggi, nel pieno di vicende come l’approvazione da parte del consiglio comunale di Verona di una delibera che consente il finanziamento pubblico di associazioni di volontariato cosiddette provita (OggiScienza ne ha parlato qui), abbiamo ripreso in mano per tornare a discuterne con l’autrice.
Onorevole Turco, lei dedica una parte importante del libro alla ricostruzione del percorso che ha portato all’approvazione della legge 194. Quali sono stati gli elementi fondamentali che hanno contribuito a quel risultato?
Il punto di partenza è stata la consapevolezza diffusa della piaga dell’aborto clandestino, dietro la quale oltre alle sofferenze delle donne si nascondevano gravissimi fatti di speculazione morale e finanziaria. Rileggendo gli atti parlamentari dell’epoca colpisce molto la forza con la quale emergeva l’attenzione su quel tema, che è stato al centro anche di iniziative giornalistiche come una potente inchiesta sul “dramma segreto” delle donne pubblicata nel 1961 da “Noi donne”, giornale dell’associazione femminile Udi.
Su questo dato di realtà hanno poi lavorato vari elementi, come l’imponente mobilitazione culturale e sociale guidata dal movimento femminista, che per la prima volta in Italia ha esercitato così tanta pressione sul legislatore. Altre leggi precedenti pure importanti per le donne, come la riforma del diritto di famiglia del 1975 (che per esempio sancisce il superamento della potestà maritale a favore dell’uguaglianza tra coniugi, NdR) erano state approvate più su spinta parlamentare, mentre i temi dell’autodeterminazione femminile, dei diritti legati al corpo delle donne sono stati posti soprattutto dal femminismo, animando una mobilitazione sociale che è arrivata a mettere in crisi il Parlamento stesso.
Ricordo bene, durante i lavori sulla legge, le battaglie anche all’interno del Partito comunista su chi dovesse avere la parola definitiva sulla scelta dell’interruzione di gravidanza. Per i dirigenti (maschi) doveva spettare a una commissione medica, ma per noi militanti donne dovevano essere proprio le donne ad avere l’ultima parola. E forti della nostra passione, dei nostri argomenti, della nostra unione e determinazione vincemmo noi.
Non solo: altro elemento fondamentale è stato il dialogo franco e aperto che si è costruito in Parlamento tra le diverse forze politiche pur su un tema così divisivo. Un dialogo paradossalmente e drammaticamente reso possibile da uno dei momenti più difficili della storia del nostro paese. Eravamo in pieno terrorismo e il 1978 fu l’anno terribile del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta. Momenti di dolore, angoscia, smarrimento, in cui le forze politiche riuscirono a dialogare per dare al paese grandissime leggi che mi piace definire le “riforme della speranza”: la legge 194 sulla tutela della maternità e l’interruzione volontaria di gravidanza, la legge 833 che istitutiva il Servizio sanitario nazionale universale e solidaristico, la legge 180 che eliminava i manicomi.
Infine, un ultimo elemento: la pressione esercitata sul Parlamento dall’iniziativa del Partito radicale, che aveva proposto un referendum abrogativo del cosiddetto Codice Rocco (il codice penale formulato nel 1930 che considerava l’aborto un reato penale che rientrava tra i “delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe”, NdR). Un’iniziativa malvista da altre forze politiche perché, in caso di abrogazione effettiva, avrebbe comunque lasciato il paese senza una regolamentazione in merito.
Lei come giudica la legge infine approvata?
Saggia e lungimirante perché si basa su un chiaro equilibrio di valori: la tutela della salute della donna – nella quale è implicito il diritto all’autodeterminazione – la tutela della vita fin dall’inizio, ma anche la tutela sociale della maternità e l’importanza di scienza e coscienza medica. Che fosse una legge saggia e lungimirante lo prova il fatto che ha funzionato, nonostante non lo si riconosca mai perché in Italia abbiamo la pessima abitudine di non valutare l’esito delle leggi. Si temeva che avrebbe banalizzato e promosso l’aborto, ma non è stato così: i dati dicono – e perfino i medici obiettori lo riconoscono – che al contrario ha drasticamente ridotto il ricorso all’aborto.
Tanta mobilitazione, tanto impegno, tanto dialogo, ma oggi rischiamo di “tornare al buio”. Perché?
Perché anche senza chiare riforme legislative la 194 può facilmente essere svuotata del suo significato. Basti pensare alla questione dell’obiezione di coscienza, di cui il Ministero della salute offre sempre una lettura molto rassicurante, sostenendo che i medici non obiettori presenti sul territorio sono comunque sufficienti a garantire il servizio. Ma io non sono affatto sicura che sia così. La relazione annuale al Parlamento sull’applicazione della legge 194 tiene conto solo delle interruzioni di gravidanza effettivamente avvenute, non di quelle richieste. Non sappiamo quante donne che si rivolgono ai servizi per un’interruzione di gravidanza vengono di fatto respinte per la carenza di personale e le lunghe liste d’attesa, né dove si rivolgano allora queste donne.
Molti medici raccontano di trovarsi sempre più spesso di fronte a donne che hanno esiti di aborti praticati male, non si sa bene dove e da chi. Significa che lo spettro dell’aborto clandestino è ancora presente. E anche iniziative come quelle di Verona rappresentano un chiaro esempio di svuotamento della legge 194. Ora, io non ho nulla contro le volontarie e i volontari che cercano un dialogo con le donne presso i servizi nel tentativo di dissuaderle dall’aborto, però un conto sono appunto eventuali iniziative volontarie, altra cosa è finanziarle con risorse pubbliche, che andrebbero invece usate per avere cura della 194.
Che cosa dovrebbe significare, concretamente, avere cura della legge?
Fare in modo che possa essere applicata bene, e dunque: potenziamento dei consultori; promozione di una procreazione cosciente e responsabile attraverso educazione alla sessualità e gratuità della contraccezione almeno per i giovani; regolamentazione dell’obiezione di coscienza; formazione dei nuovi ginecologi anche sul tema dell’interruzione di gravidanza, trascuratissimo durante la specializzazione; modifica dei criteri di utilizzo della pillola abortiva RU486, oggi troppo restrittivi rispetto alle indicazioni previste dal farmaco stesso e a quanto avviene in altri paesi.
Ricordando che l’utilizzo di RU486 non solo non produce banalizzazione dell’aborto (di nuovo, il suo arrivo sul mercato non ha affatto comportato un’impennata di interruzioni) ma per alcuni può anche essere disincentivante rispetto all’obiezione di coscienza. Infine, avere cura della 194 significa anche sostenere concretamente la maternità (e la paternità). Il che non ha niente a che vedere con i volontari provita, ma riguarda invece la costruzione di una società finalmente accogliente nei confronti dei figli che nascono, con assegni familiari, asili nido accessibili a tutti (immigrati compresi… è ripugnante sentire parlare di servizi solo per italiani!), politiche di condivisione del lavoro di cura tra uomini e donne, spazi cittadini in cui i bambini possano giocare e stare insieme.
Ma secondo lei perché siamo stati così bravi 40 anni fa a fare una legge così bella e lo siamo così poco oggi nel prendercene cura?
Allora siamo stati bravi perché la forte effervescenza sociale sul tema dell’aborto ha incontrato il fatto che in Parlamento sedevano persone competenti, con una grande sensibilità sociale, un forte senso della politica e una grande capacità di dialogo. Mi dispiace dirlo, ma oggi non vedo altrettanta competenza, come non vedo un reale impegno a favore dell’applicazione della legge. E fuori dal Parlamento c’è una forte mobilitazione contro l’aborto, non soltanto da parte del tradizionale mondo cattolico, mentre non c’è ancora una mobilitazione altrettanto forte a difesa di questo diritto.
Come vede la mobilitazione femminile in Italia in questo momento?
Ci sono singole iniziative che sicuramente apprezzo, ma dovrebbe esserci ancora più consapevolezza, ancora più organizzazione. Servirebbero azioni ancora più incisive e un salto di qualità della mobilitazione sociale, non necessariamente mettendo al centro del discorso solo l’aborto.
Quali altri temi dovrebbero essere al centro di questa mobilitazione?
Intanto una buona e piena occupazione femminile, anche per consentire ai giovani di avere i figli che desiderano. Poi le politiche pubbliche di reale sostegno a maternità e paternità. E naturalmente la lotta contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne.
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