GRAVIDANZA E DINTORNIIN EVIDENZA

Il canale del parto tra evoluzione e assistenza al travaglio

In popolazioni differenti forma e dimensioni del bacino femminile sono molto più variabili di quanto si pensava, con significative conseguenze teoriche e pratiche.

Uno dei campioni esaminati da Betti e Manica / Cortesia Lia Betti

GRAVIDANZA E DINTORNI – Altezza, lunghezza delle gambe e delle braccia, proporzioni relative di varie parti del corpo: sappiamo bene che possono essere molto diverse in popolazioni di aree geografiche differenti. E un po’ a sorpresa ora scopriamo che una variabilità anche maggiore riguarda forma e dimensioni del canale del parto nelle donne, come provano i risultati di uno studio condotto da due ricercatori italiani di stanza in Gran Bretagna.

Lia Betti, antropologa dell’Università di Roehampton, e Andrea Manica, professore di ecologia evoluzionistica a Cambridge. Lo loro osservazioni, pubblicate sui Proceedings of the Royal Society B, da un lato rappresentano un nuovo colpo contro una delle ipotesi più autorevoli – ma oggi sempre più contestata – sull’evoluzione della forma del bacino umano e dall’altro offrono importanti spunti di riflessione per l’assistenza ostetrica al travaglio e al parto in un mondo sempre più multietnico.

Perché per l’essere umano travaglio e parto sono così complicati?

Nella nostra specie travaglio e parto sono processi molto più lunghi e complicati che in specie di scimmie antropomorfe pur evolutivamente a noi vicine. L’ipotesi a lungo più accreditata per spiegare questa “difficoltà” è che essa rappresenti il risultato di un compromesso anatomico tra due forze evolutive contrapposte: garantire l’efficienza dell’andatura bipede e assicurare il passaggio di un feto dalla testa particolarmente grande.

Questo “dilemma ostetrico” avrebbe portato a un canale del parto non troppo largo, per consentire un’andatura eretta efficace, ma neanche troppo stretto, per permettere il passaggio del feto. “Se così fosse, però, forma e canale del parto dovrebbero variare poco in tutto il mondo, mentre noi abbiamo osservato il contrario” commenta Betti.

Lo studio

Analizzando le caratteristiche fisiche di 348 scheletri femminili di varie epoche storiche e di varie aree geografiche, infatti, i due ricercatori hanno scoperto una notevole variabilità di numerose parti dello scheletro, compreso il bacino.

Non ci sono due donne con un bacino identico ma, in generale, abbiamo visto che il canale del parto è più stretto lateralmente e più profondo in senso fronte-retro in donne sub-sahariane e di alcune popolazioni asiatiche e più largo lateralmente in donne native americane. Inoltre l’ingresso del canale appare più ovale in popolazioni europee, nordafricane e americane e più tondo in donne asiatiche e subsahariane” spiega Betti.

Il passaggio successivo è stato cercare di capire il perché di queste differenze. “Dal momento che vanno di pari passo con la variabilità genetica delle popolazioni considerate, la nostra ipotesi è che siano in gran parte frutto di un processo di deriva genetica casuale – cioè del caso – più che di una pressione evolutiva particolare”.

Immaginate lo scenario: poco a poco, durante la nostra storia evolutiva, gruppi più o meno piccoli di persone si sono allontanati dall’Africa per andare a insediarsi in altre aree del pianeta. Per puro caso, ogni gruppo poteva avere caratteristiche genetiche neutre (cioè né vantaggiose né svantaggiose per la sopravvivenza) specifiche – per esempio un canale del parto un po’ più largo o un po’ più stretto – che sono poi state tramandate di generazione in generazione, rendendo le popolazioni derivanti da quel gruppo un pochino diverse da quelle discendenti da altri gruppi.

Su questa casualità di base potrebbe poi essersi innestata qualche piccola pressione evolutiva legata all’ambiente e in particolare – sostengono Betti e Manica – al fattore clima, con temperature più fredde che avrebbero favorito strutture fisiche, dunque anche canali del parto, più ampie.

Perché queste differenze?

Se l’ipotesi del dilemma ostetrico va in crisi, altri elementi potrebbero spiegare perché i nostri bambini debbano farsi strada attraverso un canale così stretto (e perché il parto umano sia dunque così faticoso e doloroso) .

“Io sospetto che la statura c’entri comunque, ma non in relazione all’efficienza della locomozione. In gioco potrebbe esserci piuttosto la necessità di contenere l’ampiezza del canale del parto per evitare il prolasso degli organi interni” sostiene Betti. Altri come Jonathan Wells, professore di antropologia e nutrizione pediatrica all’University College di Londra, chiamano invece in causa i cambiamenti subiti dalla nostra specie con la transizione all’agricoltura. La maggior disponibilità di cibo ad alto contenuto calorico avrebbe determinato una crescita maggiore del feto, con tutte le complicazioni del caso.

Antropologia e quotidianità

In ogni caso, i dati raccolti da Betti e Manica non hanno un significato solo per il campo dell’antropologia fisica e dell’evoluzione umana. “Differenze nella forma del canale del parto così significative come quelle che abbiamo osservato possono tradursi in differenze nel modo in cui il feto attraversa quel canale durante il travaglio e il parto. Ma se questa variabilità non viene riconosciuta, come accade se si prende come unico riferimento la morfologia media della donna di origine caucasica, si rischia di vedere situazioni critiche e di pericolo dove non ce ne sono, con conseguenti interventi inutili”.

In società sempre più multietniche, essere consapevoli di questa variabilità anatomica è fondamentale per garantire una corretta assistenza al travaglio, a qualunque donna.

Secondo Beatrice Ciccanti, ostetrica del punto nascita dell’Ospedale Sacco di Milano, al quale afferisce un’utenza decisamente multietnica, la formazione ostetrica italiana comincia effettivamente ad andare in questa direzione. “L’università tutto sommato prepara al fatto che esistono tipi differenti di bacino, che pur nell’ambito di un’ampia variabilità individuale possono corrispondere ad andamenti differenti del travaglio. E se non lo fa l’università, lo fa l’esperienza quotidiana in ospedale”.

Più che la riflessione sulle differenze anatomiche, per Ciccanti quello che ancora manca è una riflessione sulle differenze culturali nel modo di vivere il travaglio.

“Per esempio: nei nostri ospedali in genere consentiamo l’accesso alla sala travaglio a un solo accompagnatore, di solito il papà, a volte una sorella o la mamma. Ma ci sono culture nelle quali tradizionalmente questo momento è vissuto in gruppo, con le sorelle, le cugine. Perché impedire questa dimensione? Dovremmo ragionare di più sull’idea che nel resto del mondo le cose si possono fare anche in modo diverso rispetto a come siamo abituati a farle noi”.

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance