AMBIENTE

Perché è importante studiare il ghiaccio?

I nostri ghiacciai si stanno riducendo e con essi scompaiono montagne di informazioni: perché è importante studiarli e quali sono i metodi per farlo?

Ogni estate e ogni inverno, ormai a cadenza regolare, si sentono levare le voci degli scettici sui cambiamenti climatici. Ma qual è davvero lo stato dei ghiacciai, come si studiano e quali informazioni ci permettono di ricavare? Ne abbiamo parlato con il dottor Renato R. Colucci, docente di glaciologia presso l’Università di Trieste, che in particolare si occupa di geomorfologia glaciale e periglaciale in varie zone delle Alpi (ma non solo) e studia le interazioni tra la criosfera e il clima, ovvero come la criosfera – intesa come ghiacciai, fenomeno ghiacciai e fenomeno permafrost – interagisce con il clima, nel passato e nel presente.

Qual è la situazione dei ghiacciai del monte Canin?

La definizione di ghiacciaio, se da un punto di vista tecnico-glaciologico può essere corretta, di fatto in questo caso non lo è, perché quelli del Canin non sono più ghiacciai. Hanno sì un movimento, ma molto limitato, si parla di pochi centimetri all’anno, quindi sono quasi statici, dal momento che la loro massa, il loro spessore, il loro volume non sono più tali da garantire un flusso e una deformazione interna del ghiacciaio indotta dalla massa stessa del ghiacciaio. Per questo si devono definire, con il termine internazionale, ice patches, o glacionevati nel termine italiano.

Lo stato di salute, negli ultimi trent’anni, è sicuramente pessimo, e nella maggior parte – se non nella totalità – dei ghiacciai alpini continua a essere sempre più grave anno dopo anno. Questo è sostanzialmente dovuto al fatto che il clima si sta modificando e sta andando in una direzione ben definita: clima più caldo, con estati più lunghe e più calde e inverni più brevi e meno freddi.

Quello che è successo nelle Alpi Sud-orientali – dove ci sono questi ghiacciai – negli ultimi 10-15 anni ha permesso una fase di relativa stabilità, nel senso che le condizioni non si sono aggravate, se vogliamo usare un termine medico. Questo perché alcuni inverni particolarmente nevosi, come l’inverno 2008-2009, l’inverno 2013-2014, ma anche quello 2017-2018, portando quantitativi di neve eccezionali su questi relitti glaciali ha fatto sì che fossero protetti dal caldo estivo: tanta neve in più ci mette chiaramente molto più tempo a sparire, e quindi protegge il ghiaccio che sta sotto e che rappresenta il vero ghiacciaio. Questo nonostante le estati degli ultimi 10-15 anni risultino le più calde mai osservate a livello alpino da quando esistono le osservazioni meteorologiche al mondo.

Di cosa si occupa la vostra attività di monitoraggio sul monte Canin?

Io lì mi occupo di diverse cose, dal ghiaccio in grotta, ai ghiacciai esterni, ma soprattutto alla ricostruzione delle dimensioni dei ghiacciai nel passato – a partire dalla piccola era glaciale e anche più indietro nel tempo, in periodi durante i quali il clima era più freddo, più umido, o entrambe le cose, e di conseguenza i ghiacciai erano più grandi, a giudicare dai depositi che hanno lasciato. Per quanto riguarda invece l’evoluzione presente, attuale, il monitoraggio principale che viene eseguito è quello del bilancio di massa stagionale e/o annuale. Si va in ghiacciaio, più o meno sempre nello stesso periodo, quindi alla fine dell’inverno, inizio o metà primavera, e poi si va alla fine dell’estate – inizio dell’autunno. Nel primo caso si vede quanta neve è caduta, per fare il bilancio di massa stagionale dell’inverno, mentre a fine estate – inizio autunno per fare il bilancio di massa annuale, per vedere l’ammontare della massa che se n’è andata via rispetto all’anno precedente.

Questo bilancio viene effettuato su tutti i ghiacciai italiani?

Non su tutti perché sono tantissimi, ci vorrebbe una messa in campo di uomini, mezzi e denaro impressionante. Viene effettuato su alcuni. Lo si può fare, per i ghiacciai più grandi, su immagini da satellite, metodo che ha costi chiaramente più limitati, però, per esempio, dal satellite non riesco ad apprezzare quello che succede sul Canin, perché è talmente piccolo che quasi non lo vedo.

Ma come si è formato il ghiaccio all’interno delle caverne?

Il ghiaccio in grotta è una parte dello studio della criosfera globale molto di nicchia. Vengono definiti ghiacci in grotta i depositi di ghiaccio permanente all’interno delle grotte, e con permanente significa che almeno per due anni questo ghiaccio deve stare lì senza fondere.

Download dei dati di temperatura, utili a comprendere il microclima di questi ambienti ghiacciati sotterranei. (Cortesia immagine: Renato R. Colucci)

Si formano essenzialmente per due motivi: il più importante è la geometria delle grotte, che in alcuni casi fa sì che l’aria fredda durante l’inverno si infili nei meandri carsici di alta quota – nel Canin come in altre zone carsiche della nostra regione o del mondo – e poi rimanga intrappolata all’interno dell’ambiente di grotta per motivi non solo geometrici, ma soprattutto di densità (perché l’aria fredda è più densa, pesante, rispetto all’aria calda e quindi tende a stagnare una volta che entra in un posto se non c’è una ventilazione molto forte).

Restando lì permette di creare delle nicchie microclimaticamente diverse dal complesso carsico che sta attorno, e quindi formare delle zone di permafrost, come quello che esiste alle alte latitudini, all’interno del quale l’acqua gocciola, arrivando in un ambiente sotto zero chiaramente congela e dà origine a questi depositi stratificati di ghiaccio all’interno delle cavità. Oppure – e questo è il secondo motivo – si può formare quando la neve, durante l’inverno, a causa del vento entra all’interno di cavità che sono direttamente in contatto – magari sono a cielo aperto, profonde ma a cielo aperto – quindi tutte le nevicate entrano dentro insieme al freddo e portano alla formazione, anche in questo caso, di ghiaccio, che ha un’origine però un po’ diversa.

Nel primo caso è più acqua di stillicidio, goccia dopo goccia, che forma il deposito di ghiaccio, nel secondo è neve che entra nella grotta e poi si trasforma piano piano in ghiaccio come avviene in un ghiacciaio normale all’esterno. In entrambi i casi, siccome si parla in termini internazionali di ground ice, cioè ghiaccio nel terreno, nel suolo, sottoterra, questo fenomeno è definito un fenomeno di permafrost locale.

Perché sono importanti?

Perché all’interno di questo ghiaccio, siccome l’ambiente della grotta è molto conservativo, i cambiamenti che accadono sono molto più lenti rispetto a quanto avviene all’esterno e sono di scala decisamente inferiore. Questo ghiaccio preserva e contiene tante informazioni del passato, quindi se io ho un deposito sufficientemente antico, andandolo a studiare posso capire o cercare di interpretare come era, ad esempio, il clima 1000 anni fa, 3000, 5000, se trovo un ghiaccio così vecchio.

Come fate a datare il ghiaccio?

Si tratta di una ricerca che stiamo svolgendo proprio sul Canin, applicando vari metodi di datazione. Si può datare direttamente l’acqua di fusione, con il particolato atmosferico che sta all’interno, può trattarsi di un polline, di particelle di materia organica che sono rimaste intrappolate all’interno del ghiaccio, o anche di altri elementi che sono dei marker. Ad esempio, il marker del fallout nucleare degli anni ´50, se viene rilevato nel ghiaccio, indica che si è formato in quel periodo, quindi si tratta di un ghiaccio recente. Ma chiaramente all’interno delle grotte possono penetrare anche insetti, foglie, se ho una grotta che ha un accesso in cui può entrare la neve di una valanga possono introdursi anche pezzi di ramo, di legno, di alberi, quindi tutte le inclusioni che io trovo dentro al ghiaccio, se contengono materia organica, possono essere datate.

C’è poi una parte abbastanza innovativa delle datazioni in grotta, che è la datazione degli speleotemi, cioè la datazione delle concrezioni calcitiche – ovvero stalattiti e stalagmiti, quelle che vediamo nelle grotte turistiche. Nelle grotte di alta quota non se ne formano di grandi dimensioni, perché fa troppo freddo, però si possono trovare cristalli di calcite di vario genere, e tra questi la calcite criogenica – criogenica perché nata all’interno del ghiaccio – che può essere rinvenuta all’interno del ghiaccio stesso. Hanno la particolarità, se non sono troppo contaminati, di poter essere datati con metodi isotopici, quindi, se considero i rapporti isotopici di alcune sostanze – il più tipico è quello tra uranio naturale e torio -, posso risalire all’età di formazione di questa calcite criogenica, datare lo strato dove si è creata, e di conseguenza quel layer di ghiaccio.

Carotaggi per il campionamento della calcite criogenica, volti alla datazione del deposito di ghiaccio. (Cortesia immagine: Arianna Peron)

Nel momento in cui lo strato più superficiale del ghiaccio fonde per l’aumento della temperatura e poi parzialmente ricongela, questo non vi scombina gli strati o vi rende più complicata la datazione?

Se ho un deposito di ghiaccio di 10 metri, se fonde perché fa caldo, c’è il global warming etc, comincia a fondere dall’alto, mi porta via i periodi più recenti. Questo chiaramente è un problema, perché nei periodi più recenti ci sono le osservazioni meteorologiche dirette, le misurazioni della temperatura, e così via. Il global warming sta asportando la parte più superficiale del ghiaccio che è quella che potrebbe essere tarata in maniera più corretta. In ogni caso, con metodi geofisici (per esempio con il georadar, si guarda come sono gli strati, si vede se la massa di ghiaccio è continua, bella compatta, se non ci sono buchi, vuoti) devo individuare il punto migliore dove le qualità del ghiaccio possono soddisfare le mie esigenze di ricerca e di studio.

Qual è la particolarità della zona del monte Canin per questo tipo di studi?

Sicuramente il monte Canin è un’area favolosa dal punto di vista dello studio del ghiaccio di cavità, perché la roccia che compone il monte è per gran parte, se non altro per i primi 700-800 metri di spessore partendo dall’alto, costituita da Calcare del Dachstein, che è un calcare molto carsificato, quindi ci sono moltissime grotte. Più grotte ci sono, più sale la probabilità di trovarne con il ghiaccio all’interno, e quindi potenzialmente ho tanta materia prima per poter studiare questo fenomeno. Sicuramente si ha molta più materia prima che nei ghiacciai esterni, ormai ridotti, anche se comunque molto interessanti in quanto valore aggiunto di quest’area. Le Prealpi Giulie rappresentano la zona più piovosa di tutte le Alpi, con quantitativi di precipitazione altissimi, superiori ai 3000 millimetri all’anno in alcune zone – ovvero 3000 litri di acqua per ogni metro quadrato. Quindi piove tanto, nevica tanto, i processi sono tutti enfatizzati.

C’è ancora chi è scettico nel confronti dei cambiamenti climatici. Il fatto che negli ultimi anni ci siano state nevicate più abbondanti malgrado il trend delle temperature fosse in aumento trova una giustificazione dal punto di vista climatologico o è qualcosa che ancora stiamo cercando di capire e stiamo studiando?

Lei quanti anni ha?

29.

Ecco, lei avendo 29 anni non ha la possibilità di capire che cosa sia il cambiamento climatico, perché è nata in un periodo nel quale il cambiamento climatico era di fatto già partito e avvenuto. Lei ha una percezione dell’estate e dell’inverno distorta: l’estate per lei è una cosa che in realtà non rappresenta l’estate del clima delle nostra zone. Per lei d’estate andare sopra i 30°C è qualcosa che deve accadere, o addirittura arrivare a 33, 35 fa parte della normalità – in pianura, intendo.

In realtà queste sono cose del tutto anormali, il clima del Friuli prevedeva che si raggiungessero i 30°C saltuariamente nel corso di un’estate, arrivare a 30°C era già qualcosa di poco frequente nel corso di un’estate. Già questa è una visione che mette in difficoltà le nuove generazioni nel comprendere cosa sia il cambiamento climatico. Io ho delle grosse difficoltà in università, con ragazzi di 20 anni o 22, a spiegare che cosa significhi estate in Italia adesso e cosa in realtà significava in passato.

Quello che rimane del Ghiacciaio orientale del Canin. (Cortesia immagine: Renato R. Colucci)

Per quanto riguarda gli eventi nevosi invernali degli ultimi anni sono verosimilmente legati proprio ai cambiamenti climatici: se nevica tanto, soprattutto in alta quota e non a valle, significa che fa più caldo, quindi c’è più vapore acqueo a disposizione, precipitazioni più intense e infatti portano sì tanta neve, ma sempre più in alto; nelle vallate le nevicate storiche degli anni ´70 o degli anni ´60, ´40, ´30, ´20, andando indietro nel tempo, non arrivano più. Magari nevica in quota, sopra i 2000 metri ci sono delle annate molto nevose. Si tratta di una conferma in realtà, non è un qualcosa che porti a credere che in realtà non è vero che il clima stia andando verso una situazione più calda.

L’errore più grave che si fa in questi casi, poi, è mescolare la meteorologia alla climatologia: cioè mescolare un’annata nevosa o mescolare cinque giorni di freddo con il discorso sul clima. Due settimane di temperature sotto o sopra media contano poco. Le annate con temperature normali, rispetto al clima locale, diventano sempre più rare e distanziate nel tempo, ed è questo il segnale più evidente del cambiamento in atto.

In una condizione stabile, nel corso di 10 anni si dovrebbero avere, diciamo, 3 annate con temperature sopra la media, 3 con temperature sotto la media e 4 con temperature molto prossime alla media. Dal 1989 – ultimi 30 anni – ci sono stati 3 anni con temperature sotto la media, 7 anni con temperature prossime alla media e 20 anni con temperature sopra la media. Negli ultimi 10 anni c’è stato un solo anno con la temperatura media annuale sotto alla media, il 2010. Questo è il Global – local – Warming, non una settimana di caldo o freddo, per quanto estremi possano essere.


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Giulia Negri
Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell'atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell'organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti.