Se tuo figlio è autistico
La storia di chi lotta per affermare i propri diritti di genitore di una bambina autistica, fra servizi sanitari, indennità e sostegno a scuola. “Avere un figlio autistico è fare politica”.
Lisa è al primo anno di scuola materna quando riceve la diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Oggi ha nove anni e frequenta la terza elementare. Vive una vita relazionale piena, circondata da compagni di classe che le vogliono bene e la includono nelle loro attività. “Si rende conto di avere qualche difficoltà a scuola rispetto ai suoi compagni, ma non è ancora consapevole della sua condizione, nonostante noi in casa parliamo serenamente di autismo, anche con la sua sorellina più piccola”, mi racconta Daniela, la sua mamma.
“Forse arriverà il momento di parlarne più dettagliatamente a breve. O forse no, accadrà fra molto tempo. Quello che più conta è che Lisa è una bambina serena, anche se accanto alla sua vita familiare e scolastica vive anche una vita di visite mediche, logopedia, psicomotricità”.
La serenità di Lisa è la punta di un iceberg, l’immagine che emerge alla fine del puzzle. Dietro ci sono sforzi continui da parte della sua famiglia, per coordinare tutti gli aspetti, collocare i pezzi. Garantire il migliore dei supporti possibile a Lisa, per farla arrivare all’adolescenza e all’età adulta come una donna indipendente.
Avere un figlio autistico è fare politica
“Avere un figlio autistico è fare politica” mi spiega Daniela. “Non nel senso di combattere ma di collaborare, di farci ascoltare come genitori, considerare risorse dal sistema”. Capisco parlando con lei – che da anni gestisce un blog che le permette di entrare in contatto con tante storie simili e non simili a quella di Lisa – che nonostante le tante sfaccettature dello spettro autistico c’è un tratto comune: sentirsi molto soli dopo la diagnosi.
“Nessuno sa dirti come devi muoverti, quali sono i servizi a cui puoi accedere e quali sono i tuoi diritti. La fortuna gioca un ruolo ancora troppo grande nelle vite di questi bambini e delle loro famiglie. Noi stessi quando abbiamo ricevuto la diagnosi ci siamo recati in commissione per richiedere l’accesso alla Legge 104 e ci hanno dato l’indennità di frequenza, che corrisponde a 290 euro al mese per nove mesi, trattandosi di un’indennità legata alla frequenza scolastica. Abbiamo scoperto solo dopo un anno che potevamo richiedere l’indennità di accompagnamento, che corrisponde a un assegno più consistente per coprire le molte spese mediche, ma oramai erano passati i sei mesi entro i quali era possibile fare la domanda” mi racconta.
Negli ultimi sei anni lei e il marito hanno provato a richiedere per tre volte l’accompagnamento, adducendo come argomentazione l’aggravamento della situazione, ma ogni volta la domanda è stata respinta. “Il punto è che per una condizione come lo spettro autistico non esistono indicatori quantitativi definiti in apposite linee guida che uniformino l’accesso a questa indennità. È tutto a discrezione della commissione giudicante”.
Il miglior supporto per i propri figli
Chiedo a Daniela se le abbiano mai richiesto informazioni circa le condizioni economiche della sua famiglia, per esempio attraverso l’ISEE, ma la risposta è negativa. Mi chiedo dunque di quale uguaglianza di accesso al servizio si possa parlare, nel il caso di famiglie con figli diagnosticati con un grado lieve e che si vedono rifiutare l’assegno di accompagnamento, nonostante condizioni economiche non favorevoli per proporre al proprio figlio o alla propria figlia il miglior supporto possibile.
Daniela mi precisa per esempio che anche nel caso di Lisa, con una diagnosi di autismo non grave, le prospettive proposte dalla ASL non erano sufficienti a garantire un percorso di crescita adeguato alle reali possibilità della bambina.
“Noi ci siamo affidati a degli specialisti privati che vengono a casa e a scuola per fare delle attività con Lisa, incentrate sulle sue specifiche difficoltà, che nel suo caso riguardano la parte relazionale. Nonostante abbia degli amici e sia coinvolta nelle loro attività e venga invitata alle feste di compleanno, il suo modo di relazionarsi ai coetanei rimane comunque più immaturo, così come lo è il suo linguaggio.
Per queste ragioni Lisa non ama comunicare con gli altri, per sua natura evita di farlo se può – racconta Daniela – anche solo se vuole un bicchiere d’acqua va e se lo prende invece di chiederlo a noi. Abbiamo provato a lavorare su questo con degli ottimi risultati, ovviamente possibili grazie anche a una costante attività di logopedia e a un ottimo sostegno che Lisa ha a scuola.”
Scuola, il tasto dolente
La scuola è il tasto dolente nel racconto di Daniela. È lì che l’elemento Fortuna ha maggiore spazio di manovra. Lisa è “fortunata” perché la sua insegnante di sostegno, sebbene precaria, ha modo ogni anno di essere assegnata alla sua classe. Ma è un caso fortuito. La continuità non è affatto garantita.
“La scuola è seduta su se stessa, senza risorse per garantire insegnanti davvero preparati a gestire bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico e spesso ci si trova a gestire il proprio figlio per oltre un mese prima che venga lui assegnato l’insegnante di sostegno. In molti casi le scuole stesse arrivano a proporre ai genitori l’orario ridotto”. Eppure la scuola è centrale per migliorare le loro capacità e garantire loro una vita adulta indipendente dalla famiglia, cosa per molti possibile.
Come avviene per tante forme di disabilità, dopo la maggiore età l’offerta è pressoché inesistente. Lisa stessa una volta compiuti i 12 anni non potrà più frequentare le attività del Centro per l’Autismo che la segue da anni e – mi anticipa Daniela – dovrà sicuramente ricorrere a servizi privati.
Non tutti i genitori hanno le stesse risorse, la stessa capacità di affrontare i problemi dei figli. Non tutti sanno muoversi bene su internet, non tutti hanno i contatti giusti o sanno cercarli. “È assurdo che ancora troppe famiglie si rivolgano a un blog come il mio perché non hanno abbastanza informazioni dal comparto sanitario. Per questo secondo me noi per primi dobbiamo allargare lo sguardo quando chiediamo un diritto per nostro figlio. Dobbiamo pensare che lo stiamo chiedendo anche per gli altri”.
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