AMBIENTEIN EVIDENZA

Alle radici dell’Antropocene

Per individuare primi segnali di Antropocene dobbiamo spostare indietro le lancette, almeno fino a 3000 anni fa. È allora che iniziarono a comparire le prima tracce di un’agricoltura strutturata.

Negli ultimi due secoli, grosso modo da quando è cominciata la cavalcata della rivoluzione industriale, si è innescata una tendenza al consumo delle risorse naturali che sta velocemente stravolgendo quelle condizioni ambientali che garantiscono la nostra stessa sopravvivenza. È questo il quadro generale alla base del concetto di Antropocene, ovvero l’era geologica del nostro tempo, in cui l’essere umano è, per la prima volta, concausa evidente delle nuove e imminenti alterazioni naturali.

L’idea di Antropocene ha quindi molto a che fare con la modernità, se non della stretta contemporaneità. Del resto, i campanelli di allarme sul livello drammatico dell’inquinamento dell’aria e delle acque, la deforestazione dissennata, in generale sul riscaldamento globale, sono quasi diventati ordinaria cronaca quotidiana – basta ricordare le recenti discussioni sugli incendi “molto umani” in Amazonia e in Africa, mentre Luca Parmitano dalla ISS invia a terra le immagini di un pianeta che sta cambiando faccia.

In realtà, l’uomo ha probabilmente iniziato a strapazzare il suo habitat naturale molto prima di quanto siamo portati a credere. È questa la conclusione di uno studio pubblicato in questi giorni su Science, firmato da ricercatori del Max Plank Institute, dell’Università di Washington e del Maryland, frutto di un imponente lavoro congiunto che ha riunito centinaia di archeologi a livello internazionale. Secondo questo gruppo di studio, eccezionale in quanto a grandezza e metodo di lavoro, bisogna spostare indietro di parecchio le lancette per individuare primi segnali di Antropocene, almeno fino a 3000 anni fa, quando iniziano a comparire le tracce di un’agricoltura strutturata.

Già, perché secondo gli esperti dell’ Anthropocene Working Group, la data di nascita ufficiale, o quantomeno simbolica, di questa nuova era sarebbe il 16 luglio 1945, giorno in cui venne fatta esplodere una bomba al plutonio per il primo test nucleare della storia, nel deserto di Jornada del Muerto nel Nuovo Messico. Il dibattito sui confini temporali dell’Antropocene è in realtà ancora aperto – quale sarà la testimonianza del passaggio umano, la CO2 delle prime fabbriche o le tracce radioattive del New Mexico? – questi risultati non portano ulteriore scompiglio, anzi potrebbero aiutare a fare più chiarezza sulle nostre responsabilità, e suggerire nuove strategie di resilienza.

ArcheoGLOBE, gli archeologi a caccia del (quasi)Antropocene

Lo studio appena pubblicato è stato guidato dall’Università della Pennsylvania, ma fa parte di un progetto più ampio finanziato dalla National Science Foundation, ArcheoGLOBE. Questo progetto è stato condotto seguendo la filosofia del crowdsourcing: 250 archeologi esperti in pratiche agricole del passato –  tra cui anche cinque italiani, delle università di Milano, Padova, Roma e Cassino –  hanno condiviso a distanza dati sui cambiamenti ambientali e antropici occorsi nel tempo, in una finestra che va da 10.000 anni fa fino a metà del XIX secolo, in particolare su un gruppo di aree chiave con varie collocazioni geografiche. Partendo dalla letteratura scientifica preesistente sull’argomento, il team di coordinamento ha dapprima passato al setaccio statistiche e mappe già disponibili, alcune anche piuttosto recenti, sviluppate sulla base di dati relativi al binomio uomo-trasformazioni ambientali.

Dopo alcuni mesi di preparazione, i ricercatori hanno deciso di dividere i continenti, Antartide esclusa, in 146 aree in totale. Sono stati quindi preparati dei questionari da sottoporre agli archeologi. Con la scelta di un preciso metodo di lavoro da seguire – la formula del questionario – la cabina di regia ha così evitato la fatica di dover sbrogliare dati con modalità di aggregazione troppo differenti, un’eventualità fastidiosa, e probabilmente inevitabile nel caso degli archeologi, che avrebbe complicato il tutto. In sintesi, si è cercata una risposta al quesito: cosa, come e quanto stavano provocando all’ambiente gli uomini di 10000 anni fa fino a oggi, in 146 aree diverse del pianeta e in particolare in una decina di epoche cruciali?

Con 700 set di informazioni ricevute da spacchettare a disposizione, l’analisi sulle mutazioni di questi territori ha tenuto conto di molteplici fattori, come molteplici sono stati gli interventi umani in fatto di sfruttamento del suolo, dalla caccia e dal raccolto fino al pascolo e alle prime pratiche di agricoltura vera e propria. A dispetto di un immaginario comune sopravvissuto nel tempo, pare che gli interventi sulla natura delle più antiche forme di civilizzazione non fossero poi così innocui, e anzi hanno iniziato a lasciare tracce importanti già da almeno 3000 anni fa circa, appunto.
I risultati di ArcheoGLOBE indicano alcuni precisi periodi di svolta in questo lungo passaggio a qualcosa di molto simile a quello che oggi chiamiamo Antropocene. Per seguire al meglio la timeline tracciata dagli archeologi di ArcheoGLOBE è necessario fare uno sforzo intellettuale. Bisogna ragionare non più in decine di anni o secoli di attività umana, ma in tempi quasi geologici, di qualche manciata di migliaia di anni almeno.

Le origine antiche della human footprint

Se 12000 anni fa, a cavallo tra il Mesolitico e il Neolitico, gli uomini si avventuravano principalmente per cercare cibo con le tecniche di caccia, pesca o con la semplice raccolta, queste attività iniziarono pian piano a cedere il passo a pratiche più strutturate. Da essere semplici cacciatori e raccoglitori, gli uomini del neolitico impararono a disboscare per coltivare piante e per addomesticare gli animali. Le prime tracce di allevamenti selettivi e pastorizia risalenti a 8000 anni fa sono diffuse in particolare nel Sud-Ovest asiatico, ma anche in ecosistemi più aridi, in Nord Africa e in Eurasia, dove però sono diventati più comuni e un po’ più tardi, 4000 anni fa. In quanto all’agricoltura, ovvero il solco più profondo delle antiche impronte umane sugli ecosistemi, alcune tecniche di coltivazione venivano già praticate 6000 anni fa in quasi la metà dei territori abitati del pianeta, per diventare più raffinate e complesse, e quindi invasive, attorno alla data fatidica segnalata dal progetto, 3000 anni fa.

Si tratta ovviamente di processi molto lenti. Anche se l’agricoltura ha rappresentato una sostituzione della caccia e la pesca primitive, quindi una forma di progresso nella produzione di cibo, in realtà le nuove tecniche si sono sviluppate contemporaneamente, in modo complementare l’una all’altra. Ad ogni modo, il dato che colpisce e che dovrebbe far riflettere, come invitano a fare gli autori, è proprio quello spostamento di lancette così indietro nel tempo rispetto al previsto.

Anche se presi singolarmente, i dati dello studio non sono del tutto inediti, gli autori si dicono soddisfatti e entusiasti per il risultato di questa indagine. Alcuni di loro hanno lasciato dichiarazioni sul senso e l’utilità dello studio. “Rilevare che l’impatto ambientale dallo sfruttamento del suolo è iniziato almeno 3000 anni fa, significa che dobbiamo rivedere l’idea che abbiamo dell’impronta umana come un fenomeno moderno. È ancora troppo focalizzata sul passato recente”, afferma uno dei 250 contributor dello studio, Gary Feinman, curatore di antropologia presso il Field Museum.

Il sospetto che già in antichità la presenza dell’uomo iniziasse a plasmare l’ambiente era nell’aria da tempo. In uno studio più recente del 2017, per esempio, un team dell’Università di Tel Aviv racconta, attraverso i dati relativi a sedimenti di 11.000 anni fa, una storia di importanti mutamenti nella morfologia del territorio avvenute sulle coste del Mar Morto, non dovuti, come si pensava, a cause naturali come l’attività tettonica, bensì a erosioni seguite alla deforestazione messa in atto per fare spazio al nascente ingegno agricolo. Altre simili cicatrici lasciate dall’uomo sono state rinvenute altrove, e in alcuni casi hanno a che fare più direttamente con il clima che cambia.

Alcune carote di ghiaccio estratte dai ghiacciai della Svizzera italiana hanno aiutato i ricercatori di Harvard a trovare un indizio interessante per conoscere meglio la storia dell’inquinamento atmosferico di origine antropica. Risalente, in base alle datazioni standard, al XIV secolo, il ghiaccio delle alpi svizzere non sembra avere traccia di particolato di piombo. Strano, visto che campioni simili anche molto più vecchi ne contengono abbastanza da far pensare a una qualche regolarità. Tuttavia, trattandosi di ghiaccio risalente a una parentesi temporale molto precisa, in uno studio pubblicato su GeoHealth.

Da Harvard è poi arrivata la risoluzione del mistero: attorno alla metà del 1300, la peste dilagante frenò qualsiasi attività produttiva in Europa, oltre a portare morte e devastazione. Popolazione decimata, botteghe chiuse, meno fuochi accesi, meno prodotti di scarto nell’atmosfera. Questo non solo spiegherebbe quel buco del piombo nelle stratigrafie dei ghiacci, ma interpreta in chiave diversa la continuità di particolato nei secoli prima e dopo quel momento del medioevo: per almeno 2000 anni l’uomo ha immesso piombo in atmosfera in modo quasi continuativo. A conferma di questa ipotesi, sul ghiacciaio del Dôme di recente sono state rilevate particelle di piombo e antimonio, provenienti dallo “smog degli antichi romani“.

Serve ancora più crowdsourcing

Insomma, tracce simili che raccontano di un’evoluzione del nostro rapporto con l’ambiente più complessa e, soprattutto, più lunga, ce ne sono molte. Per la prima volta, ArcheGLOBE mette insieme parte di queste conoscenze, inserendo il concetto di Antropocene in un contesto archeologico. “Quello che abbiamo osservato è in sostanza una sorta di curva di accelerazione dell’impatto ambientale nel tempo. La velocità con cui cambia oggi l’ambiente è nettamente più veloce e drastica, ma possiamo comunque stimare gli effetti dell’attività umana nel passato”, spiega Ryan Williams, coautore a antropologo al Field Museum.

Al di là dei risultati, in buona parte attesi se non già noti dalla comunità degli archeologi, l’aspetto rilevante del progetto sta nel suo impianto collaborativo davvero innovativo. “Da tempo sapevamo che lo studio delle interazioni uomo-ambiente a lungo termine deve poter includere la conoscenza di tipo archeologico. La nostra ricerca e il set di dati che abbiamo raccolto aprono le porte a questo tipo di collaborazione su scala globale, per la prima volta”, ha dichiarato Lucas Stephens, analista di ricerca presso il Environmental Law and Policy Center di Chicago e a capo del progetto.

Inoltre, secondo Erle Ellis dell’Università del Maryland, è tempo ormai di andare oltre il paradigma dell’Antropocene così come declinato finora e “riconoscere che i cambiamenti a lungo termine del lontano passato hanno trasformato l’ecologia di questo pianeta e contribuito a produrre le infrastrutture socio-ecologiche, sia agricole che urbane, che hanno reso possibili i cambiamenti globali a cui assistiamo oggi”.

Imparare dal passato per capire il presente, insomma. Ma bisogna continuare a studiare, perché la mappe di ArcheoGLOBE hanno coperto alcune regioni più di altre, molte rimangono ancora da investigare. Le risorse economiche e umane di questo primo test di crowdsourcing sono state un successo ma anche un limite. Si spera in una prossima collaborazione ancora più ampia, in modo da completare questo viaggio nel passato e avere strumenti adeguati per affrontare il futuro, imminente, della Terra.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.    Immagine: Pixabay

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Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.