Ancestors the humankind odyssey: il gioco sull’evoluzione che aspettavamo?
Ricominciamo Stranimondi con Ancestors: the humankind odyssey, un videogioco survival con l’ambizione di raccontare l’evoluzione umana durante il Miocene. Ma non tutto funziona come dovrebbe.
Farci rivivere la storia della linea evolutiva che ha portato a Homo Sapiens nel periodo che va da 10 a 2 milioni di anni fa. L’obiettivo del videogioco Ancestors: the humankind odyssey è certamente ambizioso. Il gioco nasce da un’idea di Patrice Dèsilets, papà di Assassin’s Creed, e del suo piccolo studio di sviluppo che conta appena una trentina di persone, Panache Digital Games. Si gioca nei panni dei membri di un clan di Sahelanthropus tchadensis. Come abbiamo già visto in questa rubrica, diversi videogiochi si sono ispirati alla teoria dell’evoluzione, sia per la fascinazione che ancora essa esercita, sia perché alcuni suoi concetti chiave ben si prestano a una trasposizione videoludica. Quella che, invece, raramente viene trasposta correttamente in gioco è la complessità del processo evolutivo e l’assenza di un qualsivoglia finalismo, credenza questa davvero dura a morire. Come se la sono cavata gli sviluppatori di Panache Digital Games, alle prese con quella patata bollente che è la teoria dell’evoluzione?
È una giungla là fuori
I primi minuti di gioco esaltano e lasciano spaesati. Nei panni del nostro antenato non ci viene detto cosa fare, nè come farlo. Il giocatore è lasciato libero di sperimentare avendo come guida solo la propria curiosità. Ci si confronta subito con il fatto che la padronanza di una semplice azione, come la scheggiatura di una pietra, richiede la ripetuta iterazione dello stesso gesto. Che uso si può fare di un oggetto scheggiato? Lo scopriremo solo giocando, si potrebbe dire. A livello ludico queste fasi basate sulla sperimentazione e la ripetitività possono frustrare il giocatore, ma sembrano volute dagli sviluppatori per comunicare quanto faticosa e non lineare sia stata la conquista di quei piccoli gesti e abilità che noi Sapiens diamo ormai per scontati.
L’apprendimento basato sull’esperienza si rivela fondamentale visto che la pressione ambientale in Ancestors si fa sentire fin da subito. La morte può essere improvvisa e avvenire in diversi modi, ad esempio cadendo da un albero, avvelenandosi mangiando una bacca sconosciuta, predati da una tigre. L’immedesimazione viene ottenuta, quindi, mettendo il giocatore nella condizione di confrontarsi con molte delle difficoltà affrontate dai nostri antenati. Un forte accento è posto sull’uso della vista, dell’olfatto e dell’udito per conoscere e capire l’ambiente circostante e sull’importanza del clan per sopravvivere. Tutte le conoscenze apprese andranno insegnate alla prole per non essere perse. La stessa socialità con gli altri membri del clan è fondamentale per aumentare le nostre chance di sopravvivenza. In tutto questo si nota, già dai primi secondi di gioco, un uso molto diffuso di termini scientifici, come i nomi latini di piante e animali. Gli stessi nomi degli adattamenti “conquistati” sono attinti dall’area semantica propria dell’antropologia. Insomma si nota una certa ricerca riguardo gli argomenti trattati dal titolo. Ancestors, però, non vuole essere solo un gioco survival ambientato nella preistoria. Ha infatti l’ambizione di essere un titolo in grado di raccontare la storia evolutiva dell’uomo. Qui iniziano i problemi.
“Puoi battere la scienza?”
Purtroppo gli sforzi profusi dagli sviluppatori nel cercare di rappresentare il processo evolutivo, grazie anche all’aiuto dell’antropologo Niobe Thompson, non sono riusciti a concretizzarsi in una visione chiara e corretta sull’argomento. La sensazione è che in termini di correttezza scientifica troppo sia stato sacrificato per facilitare la giocabilità del titolo. Alcune problematiche derivano dalla struttura stessa del gioco che mal si sposa con un processo complesso ma, soprattutto, non finalistico come l’evoluzione. Infatti, il fatto stesso che Ancestors sia un videogioco con un inizio e una fine, separati da una progressione scandita da abilità che vengono sbloccate all’interno di un albero che sembra preso di peso da un gioco di ruolo, fa in modo che il processo evolutivo venga erroneamente esposto in termini finalistici.
La sensazione trasmessa al giocatore è che il nostro ominide sia sempre più evoluto, e quindi migliore man mano che sviluppa nuovi adattamenti. Si rinforza così la credenza che un organismo cambi e muti in vista di un fine, una delle incomprensioni più diffuse sull’evoluzione. Un altro modo fuorviante di porsi rispetto alle evidenze scientifiche dell’evoluzione è riassunto nella sfida lanciata dal gioco: “can you beat science?” Il giocatore è premiato se sviluppa degli adattamenti in anticipo rispetto a quando questi sono realmente comparsi. Questo concetto rafforza ulteriormente l’idea errata che l’evoluzione sia come una corsa verso un traguardo, ovvero l’Homo sapiens. Inoltre, sembra suggerire che chi è più veloce nel percorrere questa linea sia effettivamente l’organismo più evoluto.
Lo stesso logo del gioco riporta la famosa marcia del progresso, l’erronea silhouette rappresentante la scimmia che diventa uomo. Nel gioco viene omesso pure che durante il Miocene ogni primate si evolveva contemporaneamente agli altri. Sembra, infatti, che il clan controllato dal giocatore sia l’unico composto da individui speciali che continuano a evolversi, mentre tutto attorno resta quasi immobile. Un peccato, visto che di questi diversi rami evolutivi che procedevano parallelamente parla lo stesso antropologo Niobe Thompson in un video diario del gioco. A questo punto, ci si domanda se la consulenza scientifica richiesta in fase di sviluppo non potesse essere sfruttata meglio di così.
L’importanza evolutiva rivestita dalle mutazioni casuali, che possono talvolta decretare la sopravvivenza o l’estinzione di un’intera specie, è drasticamente ridimensionata. Queste sono state rese tutte utili. Certo, alcune sono più funzionali di altre, ma la sopravvivenza del nostro antenato non è mai messa veramente a rischio da una mutazione dannosa. Gli sviluppatori hanno probabilmente scelto di non voler rendere la vita troppo difficile al giocatore. Purtroppo, tutte queste inesattezze stonano con l’approccio scientifico del team di sviluppo riguardo a molti aspetti del gioco. Sembra che la più grande difficoltà di Panache Studios sia stata proprio quella di implementare i meccanismi evolutivi nella struttura ludica. Un vero peccato, perché una delle più interessanti possibilità del videogioco è quella di permettere di vivere delle esperienze in prima persona. Infatti, se nella scrittura vige il “show, don’t tell”, in ambito videoludico si potrebbe parlare di “play, don’t show”.
Ancestors, in questo senso, sa tanto di occasione sprecata. Ha il pregio di far vivere al giocatore la dura vita dei nostri antenati e sperimentare di persona quanto la nostra sopravvivenza sia stata spesso appesa a un filo. D’altro canto, però, gli sviluppatori non hanno avuto il coraggio di implementare fino in fondo certi concetti in-game. Ancestors resta un gioco di sopravvivenza originale e affascinante, ma che poteva essere per la teoria dell’evoluzione quello che Hellblade è per quanto riguarda la rappresentazione della psicosi: un esempio di lucida comprensione sia del mezzo videoludico, usato per comunicare di scienza, che degli stessi argomenti affrontati. La collaborazione tra scienziati e sviluppatori di videogiochi è ancora giovane, ma il potenziale per raccontare di scienza in modo emozionante, interattivo e corretto c’è tutto. Per quanto riguarda l’evoluzione umana, Désilets l’ha definita “la più grande avventura di tutti i tempi”, Nel frattempo continuiamo ad aspettare qualcuno che sappia usare il linguaggio del videogioco per raccontarla. Senza rimpianti questa volta.
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