ANIMALI

Vita da cavia

Quando si parla di sperimentazione animale spesso si sottovaluta l’importanza delle norme, dei criteri e delle metodologie con cui vengono fatti nascere e allevati gli animali impiegati in laboratorio. Conoscerli permette di inserirsi nel dibattito con maggiore coscienza critica.

C’è chi è pro e c’è chi è contro, ma pochi s’interessano al come. Ovvero come vivono gli animali oggetto di esperimenti e progetti di ricerca scientifici. Per provare a dipingere un quadro generale della vita di un animale da laboratorio, abbiamo scelto come modello i roditori poiché topi e ratti costituiscono circa il 90% degli animali utilizzati in laboratorio. E l’abbiamo analizzata nei tre momenti che la caratterizzano: quando nasce e viene mantenuto, quando viene acquistato da un laboratorio e diventa una risorsa scientifica e quando infine esaurisce il suo compito.

animali ricerca

Nell’allevamento

Topi e ratti destinati alla ricerca nascono e vengono allevati all’interno di allevamenti o stabulari. Ognuno di questi deve rispettare robusti criteri sanitari e ambientali descritti dalla legge DLVO 26/2014. Solo animali sani e privi di malattie trasmissibili a propri simili o all’uomo garantiscono una buona ricerca e risultati sperimentali attendibili.

Il medico veterinario responsabile, insieme agli altri addetti alla cura degli animali, deve assicurare le condizioni ambientali (macroambiente) e della gabbia (microambiente) idonee per ogni tipo di animale. Per i roditori si parla di una temperatura intorno ai 20-24° con un’umidità del 55%.

Le gabbie in cui vivono i topi e i ratti negli allevamenti sono realizzate con una vaschetta trasparente e una grata con un divisorio per non far inumidire il mangime. Il pavimento è composto principalmente da segatura, controllata e certificata affinché non contenga residui tossici e provenga da legni vergini e da materiali come l’abete, privi di sostanze urticanti. I veterinari cambiano e puliscono le gabbie una volta alla settimana: il tempo giusto per dare loro il modo di marcare il territorio ristabilendo la gerarchia senza provocare stress inutile.
Il mangime, formulato in pellet, deve rispondere ai fabbisogni della specie e non deve creare carenze in oligoelementi essenziali. L’acqua, contenuta in una bottiglia, deve essere potabile e la fonte di approvvigionamento deve essere verificata due volte l’anno.

I roditori, come gli altri animali, all’interno di un allevamento devono poter esprimere almeno parte del comportamento naturale. Che si manifesta nel rosicchiare, nel nascondersi o fare il nido. Per questo nelle gabbie spesso vengono introdotti elementi di arricchimento ambientale come legno o sacchetti in cellulosa con della segatura.

Ci sono altre due accortezze a cui provvedere. I roditori sono principalmente albini e per questo hanno bisogno di fonti luminose tenui, in più sono animali gregari, specialmente i ratti, e sopportano male l’isolamento. Per questo motivo devono essere tenuti in un certo numero per gabbia.

Per questioni di salute degli animali, ma anche per il rispetto delle finalità scientifiche, topi e ratti sono periodicamente sottoposti a controlli sanitari parassitologici, virologici e batteriologici. Molte ricerche, fin dagli anni Cinquanta, hanno messo in correlazione la qualità della ricerca e la salute degli animali che impiega. Ovviamente, più sale la sicurezza biologica dell’animale (quanto cioè è più “pulito” e più alta è la sua qualità di vita), e più sale il costo di gestione e mantenimento.

Nel laboratorio

Per entrare nei laboratori, gli animali diventano l’oggetto di una richiesta formale che deve essere approvata dai comitati etici di un ente di ricerca e dal Comitato ministeriale. Ogni ricercatore compila un modulo che specifica ogni aspetto del progetto: dalle tecniche che si utilizzeranno, al livello di sofferenza cui verranno sottoposti gli animali, dal valore qualitativo del progetto fino alle credenziali del proprio gruppo.

Nell’organizzare le proprie ricerche, gli scienziati non tengono conto soltanto della letteratura precedente su cui si basano, ma anche degli aspetti etici implicati dal progetto. La scienza è continuamente al lavoro per sviluppare metodi di ricerca capaci di ridurre il numero degli animali coinvolti e il dolore loro inflitto. Nel 1959, gli accademici britannici Rex Burch e William Russell elaborarono il “principio delle tre R”: “Replacement”, “Reduction”, “Refinement”, rimpiazzare, ridurre e rifinire. In virtù di questo, il ricercatore deve dunque cercare di rimpiazzare la sperimentazione su un animale con un modello alternativo, sforzarsi di ridurre il numero di cavie cercando di rifinire, quindi migliorare le condizioni a cui l’animale viene sottoposto.

Ogni esperimento è dunque un equilibrio tra obiettivi scientifici e grado di sofferenza animale.
La Direttiva Europea 2010/63 sostiene che «la gravità della procedura è determinata in base al livello di dolore, sofferenza, angoscia o danno prolungato cui sarà presumibilmente sottoposto il singolo animale nel corso della procedura stessa». È un’analisi di costi/benefici. Progetti che presentano un minore livello di importanza sia per la scienza che per la società sono rifiutati esattamente come progetti che, pur essendo di importanza maggiore, causano un elevato grado di sofferenza.

Nella richiesta, i ricercatori devono prima introdurre il background scientifico legato all’argomento, con la citazione di studi e paper precedenti che giustifichino la validità della ricerca. In seguito, devono esporre gli obiettivi del progetto e, se presenti, i risultati preliminari. Per poi specificare e giustificare tutte le tecniche che verranno impiegate allegando la relativa bibliografia.

Da qui si sceglie il modello, ovvero l’animale che si intende utilizzare, e il numero necessario. Che è il risultato di calcoli statistici che tengono conto dell’obiettivo scientifico e delle tecniche che si utilizzeranno. Trattandosi di esseri viventi, ogni ricercatore deve tener necessariamente conto anche della durata dell’esperimento. Per ogni progetto di ricerca è fissato un numero massimo di animali e un numero massimo di accoppiamenti che possono essere fatti.

La richiesta passa poi per l’Organismo preposto al benessere degli animali (OPBA) di cui ogni allevatore, fornitore e utilizzatore (università, laboratorio o centro di ricerca) deve fornirsi tra le proprie mura. La normativa europea compone ciascun OPBA di un “Responsabile del benessere e della cura degli animali”, un medico veterinario e nel caso di uno stabilimento utilizzatore, di un membro scientifico.

Un OPBA esamina i progetti di ricerca per poi esprimere un parere basato, tra le altre cose, sulla verifica della corretta applicazione del principio delle 3R, sulla rilevanza tecnico-scientifica del progetto, sulla possibilità di sostituire una o più procedure con metodi alternativi, sull’adeguata formazione e la congruità del personale indicato nel progetto e sulla valutazione del danno-beneficio. In caso di parere positivo, il progetto viene sottomesso al Ministero della Salute e alla sua commissione etica che può approvarlo o negarlo dopo un parere dell’Istituto Superiore di Sanità o dell’Ente valutatore.

In ricerca, alcune procedure implicano il sacrificio degli animali coinvolti. In questo caso, l’obiettivo di ogni procedura è di minimizzare lo stress, il dolore e l’ansia percepiti dall’animale prima della perdita di coscienza.

Uno dei punti più delicati del modulo di richiesta riguarda proprio la scelta e la giustificazione delle tecniche con cui si sacrificheranno le cavie. La scelta del metodo più appropriato è dettata dalla specie animale, dai metodi di contenimento disponibili, dalle capacità del personale e dal numero di animali da sopprimere.

Possono essere usati agenti inalatori come la CO2 o l’azoto, oppure iniezioni di anestetici come il cloralio idrato. Accanto a questi ci sono tecniche fisiche. Le principali sono la dissociazione cervicale (nel caso di uccelli, topi, ratti e conigli dal peso inferiore a 1kg) o la decapitazione (utilizzata per piccoli uccelli con un peso inferiore a 250kg e roditori solo se in assenza di altri metodi).

La scelta più auspicabile è un’overdose di anestesia che il ricercatore inietta nel corpo dell’animale. È una strada che, tuttavia, non è sempre percorribile poiché in questo modo viene compromesso il cervello dell’animale, rendendolo inutilizzabile per ulteriori studi prelievi o analisi.

 Il giorno dopo

Una volta che la sperimentazione è finita, il destino dell’animale varia in base alla specie e alla procedura a cui è stato sottoposto. Ci sono infatti progetti di ricerca che richiedono prelievi e analisi di tessuti e che, per questo, prevedono la soppressione.

In tutti gli altri casi, è il medico veterinario responsabile dello stabulario che autorizza i roditori a uscire dal laboratorio. A patto però che vengano rispettati quattro criteri: la garanzia di avere una buona prospettiva di vita, la non pericolosità per la salute umana, per gli altri animali e per l’ambiente. In caso positivo, l’animale viene affidato a una struttura in grado di accoglierlo.

L’eventuale possibilità di rieducazione o riabilitazione dipende dalla storia pregressa. Si tratta comunque di percorsi che mirano a ristabilire prima di tutto una condizione fisica non più ottimale. Gli animali devono superare il disequilibrio tra massa muscolare e struttura ossea causata dall’alimentazione in laboratorio e dallo scarso esercizio fisico per poter tornare a muoversi con piena libertà.

Allo stesso tempo, la rieducazione lavora sulla componente “psicologica”. Ovvero sul sistema comportamentale con i propri simili e con gli esseri umani (i veterinari, gli adottanti) e la reazione al mondo che li circonda. Può capitare infatti che alcuni animali, sottoposti a test molto stressanti, sviluppino fobie o reazioni esagerate a particolari stimoli esterni o anche nei confronti dell’uomo. Ad esempio ratti che hanno subìto manipolazione per inoculazioni finiscono spesso per temere la mano umana, a cui associano stress e disagio e a cui devono essere riabituati.

Una caratteristica dei roditori sui cui lavorano i centri di riabilitazione è il senso di comunità. Se i topi, per natura, tendono a non sviluppare particolari relazioni di gruppo privilegiando più la ricerca di una compagna per riprodursi, i ratti tendono invece a fare comunità, soffrendo la separazione dalle madri o dalla prole. Il loro reinserimento nella vita in comunità, comunque, è graduale e avviene a piccoli gruppi: un ratto singolo messo all’interno di un contesto con altri ratti verrà attaccato poiché percepito come un estraneo.

L’alimentazione, infine, è un punto decisivo. Il cibo dell’animale in fase di riabilitazione va variato in quanto l’approccio dell’alimentazione in laboratorio è mirato quasi esclusivamente alla crescita. Quello dei roditori tuttavia è un comportamento di “ricerca”. Topi e ratti hanno la caratteristica di fare riserve e depositi, tratti che in laboratorio non possono essere espresse. Variare le loro abitudini naturali fornendo sempre lo stesso alimento può causare stress. Il lavoro di riabilitazione deve far transitare gradualmente l’alimentazione verso una tipologia che rispecchi le peculiarità naturali.

Quanto dura un percorso di riabilitazione? È difficile fare una stima poiché dipende dalla specie animale, dalle procedure a cui è stato sottoposto e dalla condizione di salute. Tendenzialmente si possono stimare due/tre mesi. Dopodiché l’animale può andare in adozione a privati o enti e associazioni oppure restare all’interno della struttura che l’ha accolto. Anche in questo caso ci sono differenze in base al tipo di animale. Sei topi, che sono molto territoriali, vengono ceduti da soli, i conigli e i ratti, che tendono a fare comunità tra di loro e a sviluppare un forte attaccamento all’essere umano, possono essere adottati in coppie.

La vita di un animale destinato alla ricerca rientra dunque in un processo complesso, preciso e regolamentato. Un sistema che non può prescindere dal rispetto di determinati criteri scientifici, sanitari ed etici. Conoscerne il funzionamento e gli obiettivi, i limiti e le potenzialità senza darli per scontati permette di capire quanto è stato fatto finora nella tutela delle cavie da laboratorio e, soprattutto, di riflettere e di valutare con coscienza su quanto c’è ancora da fare nella ricerca scientifica, il cui futuro è sempre più alle porte.


A cura di Kevin Ben Ali Zinati e Elisa Baioni

Leggi anche: Sperimentazione animale: tra laboratorio e agorà

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Kevin Ben Ali Zinati
Studente del Master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" della SISSA e giornalista freelance, ha una laurea in Lettere Moderne. Scrive principalmente di sport e scienza. Ama la musica e i film, gioca a tennis e corre maratone.