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Il 2019 tra medicina e biologia

Il 2019 è stato un anno ricco di scienza. E ha portato con sé anche molte buone notizie nel campo della medicina e della biologia: vediamo alcune delle ricerche più significative di quest'anno e i loro protagonisti.

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Due farmaci contro Ebola

Partiamo da alcuni dei lavori che Science elenca tra runners up delle ricerche più importanti del 2019. Tra queste, vediamo lo sviluppo di due farmaci efficaci contro l’Ebola, il virus che, dalla sua prima apparizione nel 1976, è comparso in modo tanto sporadico quanto devastante. L’ultima epidemia, nella Repubblica Democratica del Congo, è stata dichiarata dall’Oms un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza nazionale: i numeri registrati al 18 dicembre 2019 indicano 3.351 casi d’infezione, di cui 2.211 hanno perso la vita e 1.089 sono sopravvissuti da quando è iniziata l’epidemia, nell’agosto 2018.

La sfida contro il virus ha impegnato ricercatori, politici e operatori sanitari per oltre quarant’anni. Parte della difficoltà nell’affrontare l’epidemia è legata al contesto d’insicurezza e conflitto dell’area interessata (che ha portato anche ad attacchi agli operatori), ma anche l’identificazione di un farmaco efficace non è stata semplice. Nello stesso anno che ha visto l’autorizzazione dell’Unione Europea a un vaccino contro il virus, due farmaci si sono rivelati in grado di ridurre significativamente il tasso di mortalità. Entrambi sono anticorpi: il primo è stato isolato da un sopravvissuto all’infezione dell’epidemia del 1996; il secondo è in realtà un mix di tre diversi anticorpi prodotti in topi con un sistema immunitario “umanizzato”.

A guidare il trial dei due nuovi farmaci è stato Jean-Jaques Muyembe Tamfum, inserito nella lista redatta da Nature delle dieci persone più importanti per il mondo scientifico nel 2019. Impegnato nello studio e nella lotta al virus Ebola fin dalla prima epidemia nel 1976, il virologo congolese ha portato avanti il trial nel mezzo di un’epidemia devastante e di un conflitto violento, ed è stato anche colui che ha reclutato il sopravvissuto da cui è stato isolato uno dei due nuovi anticorpi. E, scrive Nature, Muyembe è determinato a risolvere anche l’ultimo pezzo del puzzle prima di andare in pensione: trovare il vettore del virus e capire come si sposta da una specie all’altra.

Un farmaco per la mutazione più diffusa della fibrosi cistica

Sempre in ambito medico, citiamo un altro lavoro che ha meritato di entrare tra i runners up di Science. Si tratta del farmaco Trikafta per il trattamento della fibrosi cistica, che a ottobre di quest’anno è stato approvato dall’FDA statunitense (manca invece ancora l’approvazione della European Medicines Agency).

La fibrosi cisticaè una malattia genetica dovuta a mutazioni nel gene che codifica per la proteina Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator, deputata al trasporto degli ioni cloro e che, nei pazienti malati, funziona male o non arriva per nulla sulla membrana cellulare. La funzione assente o scarsa della proteina fa sì che la secrezione sia alterata a livello di diversi organi; tra quelli maggiormente interessati vi sono polmoni e bronchi, che tendono a sviluppare infezioni e infiammazioni croniche.

Il farmaco approvato dall’FDA è una combinazione di due correttori, che facilitano la maturazione della proteina mutata aiutandola a raggiungere la membrana cellulare, e di un potenziatore, che agisce invece aumentando il tempo d’apertura della proteina canale e migliorandone così l’attività. In particolare, è effiacce per i pazienti omozigoti con la mutazione F508del, la più frequente, o eterozigoti F508del e mutazione con funzione minima (una categoria che raccoglie oltre 200 mutazioni a causa delle quali la proteina è molto scarsa o pochissimo funzionante).

L’efficacia del farmaco, testato in due trial clinici, non è la sola ragione per la quale è benvenuto. Come ricorda questo comunicato della Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica – Onlus, infatti, il farmaco può ampliare notevolmente i pazienti trattabili, portandoli dal 50 al 90 per cento, comprendendo tutti coloro che hanno una sola copia F508del. Con un’ombra, scrive però Science: il farmaco al momento costa 300.000 dollari all’anno, e deve essere preso per tutta la vita.

La genesi degli eucarioti

Sempre dalla top ten di Science, vogliamo citare anche un lavoro di biologia che ha indagato l’origine delle cellule eucariote. Protisti, piante, funghi e animali hanno cellule dotate di un nucleo separato dal citoplasma e vari organelli, tra cui quelli deputati alla produzione di energia, i mitocondri (nelle cellule vegetali, ovviamente, sono presenti anche i cloroplasti). Ma da cosa sono originate queste cellule così complesse?

Una risposta potrebbe venire dal paziente lavoro del gruppo giapponese guidato da Hiroyuki Imachi e postato ad agosto sul server di pre-print bioRxiv, ora accettato per la pubblicazione. Agli scienziati sono occorsi 12 anni per isolare e riuscire a far crescere in coltura Prometheoarchaeum syntrophicum, un microorganismo appartenente al dominio degli Archea. Più in particolare, fanno parte del gruppo detto degli Asgard, archea che vivono in ambienti estremi e che avevano già catturato l’interesse degli scienziati perché nei frammenti del loro DNA erano stati identificati geni che si consideravano propri delle cellule eucariote. Quest’osservazione aveva portato a suggerire che proprio da un archea – che, in tempi ancestrali, avrebbe “inghiottito” i batteri che poi, con un processo di endosimbiosi, sarebbero diventati gli organelli delle nostre cellule – potrebbero derivare gli eucarioti; ciò significherebbe anche che potrebbe essere più corretto classificare questi ultimi come un sottogruppo degli Archea.

Ottenere prove certe e analisi dettagliate era però difficile, sia a causa degli ambienti estremi abitati dagli Archea del gruppo Asgard sia a causa del loro lento tasso di crescita. E in effetti, per riuscire ad averne le colture in laboratorio, Imachi e i suoi colleghi hanno dovuto usare un bioreattore in grado di mimare le condizioni del camino idrotermale sottomarino in cui vivevano i microorganismi (recuperati a oltre 2.500 metri di profondità) e aspettare cinque anni per consentire alle cellule di moltiplicarsi. Quindi, i campioni delle comunità che si erano create nel reattore sono stati isolati in tubi di vetro, dai quali, dopo circa un anno, è stato possibile isolare P. syntrophicum e, infine, ottenerne una coltura stabile. Su questa sono state condotte le analisi genetiche che hanno permesso di confermare la presenza di geni eucariotici; inoltre, i ricercatori hanno scoperto che il microorganismo può scambiare molecole con partner simbionti e che può creare protrusioni che potrebbero aver permesso la “cattura” del partner, avvolgendolo e poi fondendosi tra loro (una vera e propria fagocitosi, scrivono gli autori, sembra improbabile perché le cellule sono troppo piccole e mancano di un apparato idoneo; inoltre, il processo richiederebbe troppa energia per cellule che non hanno ancora i mitocondri).

Poliomielite, l’eradicazione globale del ceppo WPV3

Sebbene non presenti nella lista di Science, ci sembra opportuno ricordare anche altri due momenti di quest’anno importanti per la ricerca medica e biologica. Il primo è l’annuncio, da parte dell’Oms, dell’eradicazione del ceppo WPV3 del virus della poliomielite, il cui ultimo caso è stato registrato in Nigeria nel 2012.

Si tratta di un passo fondamentale verso l’eradicazione della malattia, una sfida il cui traguardo ha dovuto essere posticipato più volte. Il ceppo 2 era stato dichiarato eradicato a livello globale nel 2015, e oggi resta quindi da eliminare il ceppo 1, il più aggressivo, ancora in circolazione tra Afghanistan e Pakistan. Bisognerà inoltre far fronte ai casi di poliomielite derivati da vaccino, che si presentano nei Paesi in cui la copertura vaccinale è ancora molto bassa e dove il vaccino impiegato è (per ragioni economiche e pratiche) il Sabin, basato sul virus vivo attenuato che, in rarissimi casi, può mutare e tornare a essere aggressivo.

Ma intanto, come scrive Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, in questa lettera, “l’eradicazione globale del poliovirus di tipo 3 è un successo straordinario e un pietra miliare sulla strada dell’eradicazione di tutti i ceppi di poliovirus. Ci mostra che le nostre tattiche funzionano, dal momento che sono stati eliminati con successo singoli ceppi virali”.

Post-mortem

Il secondo lavoro che merita di essere ricordato, anche per la grande risonanza che ha avuto sui media, è l’articolo pubblicato su Nature in aprile. La ricerca descrive un processo attraverso il quale è stato possibile ripristinare alcune fondamentali funzioni in cervelli di maiale a quattro ore di distanza dalla morte dell’animale.

Guidato da Nenad Sastan, neuroscienziato della Yale School of Medicine, che per il suo lavoro è stato incluso nella top ten degli scienziati più importanti per la scienza del 2019 secondo Nature, il team di ricerca ha lavorato su cervelli di maiali macellati per la carne. 32 di essi sono stati rimossi dal cranio degli animali e, a quattro ore dalla morte, trattati con uno strumento denominato BrainEx. Quest’ultimo mimava il flusso sanguigno pompando una miscela di nutrienti e ossigeno, nonché sostanze stabilizzanti e protettive, nei vasi cerebrali.

A distanza di sei ore, i ricercatori hanno osservato la ripresa di alcune funzioni cellulari di base, come il consumo di glucosio e la produzione di anidride carbonica; inoltre è stata osservata la comparsa di alcune sinapsi. Tra le sostanze presenti nella miscela ve n’era anche una che impediva ai neuroni di riprendere l’attività elettrica, sia per proteggerli da eventuali danni sia per impedire che potesse presentarsi una qualche forma di consapevolezza. Durante tutto l’esperimento, gli scienziati hanno monitorato l’attività elettrica globale del cervello senza trovarne segno, sebbene campioni di tessuto prelevato dai cervelli trattati rispondessero agli stimoli elettrici.

La ripresa dell’attività metabolica e fisiologica è durata 36 ore e, come scrivono gli autori dell’articolo, uno dei risultati più importanti è essere riusciti a ottenerla a temperatura ambiente (invece che in condizioni criogeniche) e sul cervello di un mammifero molto grande.

Ora Sastan e i suoi colleghi vogliono capire per quanto tempo le funzioni metaboliche e fisiologiche del cervello possano essere mantenute al di fuori del corpo, sia per gli studi di base della fisiologia cerebrale sia per meglio comprendere meccanismi che potrebbero essere di grande importanza per limitare il danno ai tessuti cerebrali dovuti ad esempio a ictus o traumi. La ricerca porta con sé non poche implicazioni etiche, come la possibile ridefinizione della morte cerebrale (qui un Q&A di Nature che approfondisce alcuni di questi aspetti).


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.