I colori dell’Artico
Per metà diario di esplorazione, per metà testo divulgativo, “Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare” vi catapulterà nelle lande artiche, facendovene scoprire meraviglie, curiosità e problematiche.
Siete pronti a partire? Non preoccupatevi, non vi occorrerà il biglietto e non vi toccherà preparare alcuna valigia. Marco Tedesco, glaciologo presso la Columbia University, nel suo “Ghiaccio. Viaggio nel continente che scompare” ci porta con lui all’esplorazione della Groenlandia, realizzando un riuscito ibrido tra un diario di viaggio e un testo di divulgazione. Dai suoi racconti, scritti con la supervisione del giornalista Alberto Flores d’Arcais, emerge tutta la meraviglia per queste terre fragili e uniche. Il libro copre le azioni dell’intera giornata, dal risveglio, alla vestizione, alla raccolta dati inframmezzata dai pasti. Passiamo questa giornata con il gruppo di ricerca di cui fa parte, scoprendone routine e pensieri, fino alle preoccupazioni per la sorte di questo non così bianco territorio.
Lo scienziato si trova nell’Artico per raccogliere dati: il fine è quello di capire quanto il cambiamento climatico stia influenzando la fusione dei ghiacci e come questo stia influendo sull’innalzamento del livello dei mari. Si occuperà anche di studiare, insieme ai colleghi, come l’aumento delle temperature impatti sulla formazione e sull’evoluzione dei sistemi di fiumi e laghi contenenti l’acqua derivata dalla fusione e come il Sole giochi un ruolo fondamentale, insieme al “colore” del ghiaccio, che sta diventando sempre più scuro.
Le temperature nell’Artico sono aumentate e continuano a salire, a una velocità doppia rispetto al resto del Pianeta, e questo ha pesanti ripercussioni anche su chi vive qui: i cacciatori devono recuperare le foche dalle reti entro poche ore dalla cattura, se non vogliono che vermi e parassiti mai visti prima in queste zone attacchino la carcassa, distruggendola in poche ore. Molte popolazioni locali, dovendo modificare in maniera radicale i propri stili di vita per potersi adattare ai cambiamenti, perdono così tradizioni secolari.
Qui non è semplice nemmeno orientarsi: il Sole non è di alcun aiuto, dal momento che in estate non tramonta mai, e perfino le bussole sono inutili. Il polo magnetico e quello geografico, infatti, non coincidono e man mano che ci si avvicina a quest’ultimo la bussola sarebbe sempre più fuorviante. La combinazione di neve e Sole, poi, aggiunge un altro problema: è fondamentale proteggere sempre gli occhi, perché anche se non si guarda verso il nostro astro è come se lo si facesse ugualmente. La neve intorno riflette la luce a 360 gradi, e se è fresca è ancora peggio: quest’ultima, infatti, riflette il 90% della radiazione solare. L’aspetto positivo, però, è che la neve fresca si scioglie con più difficoltà, proprio perché assorbe così poca energia, e ci vuole tempo perché ne assorba a sufficienza per passare dallo stato solido a quello liquido. Per questo è importante studiare i “colori” del ghiaccio: le zone più scure – più antiche – sono quelle che assorbono più calore, fondendo con maggior facilità, innescando un circolo vizioso. Più neve si scioglie, scoprendo ghiaccio scuro e ruvido, più aumenta la quantità di materiale che ritorna acqua. Se, poi, polveri sottili e ceneri continuano a depositarsi sulla neve, trasportate da vento e precipitazioni, l’effetto si intensifica ancor più: quando fonde, rimangono le particelle scure, che si accumulano strato dopo strato, cambiando ulteriormente il colore.
Inframmezzate al racconto delle ricerche che si fanno nell’Artico, si trovano numerose curiosità: per esempio, quanto è spesso il ghiaccio in Groenlandia? Può arrivare a circa 3 chilometri di altezza, mentre sulla costa si parla di poche centinaia di metri. E quanto tempo impiega a formarsi? Migliaia di anni: inverno dopo inverno, la neve si accumula e, se non si scioglie, si compatta, espellendo l’aria e diventando ghiaccio solo dopo aver raggiunto la fatidica densità di 917 chilogrammi per metro cubo, “dogma per gli addetti ai lavori”. Questo significa che meno del 10% del volume occupato da questa fredda sostanza è occupato da aria, il resto è tutta acqua allo stato solido. Eppure questo processo lungo e laborioso può venir vanificato in una sola giornata, o meno.
Se, un giorno, queste terre venivano percorse da cammelli artici (sono esistiti davvero, alti circa tre metri e perfettamente adattati ai climi freddi, anzi, si ritiene che questi fossero i loro habitat “originari”), oggi grandi navi sono riuscite a percorrere il leggendario passaggio a nord-ovest, rendendo sempre più chiari gli effetti dei cambiamenti climatici, che su un ecosistema così fragile sono ancora più visibili e dirompenti. Il lavoro degli scienziati porta con sé un enorme peso: se, da un lato, c’è la speranza che i dati ricavati possano essere d’aiuto ai 900000 indigeni originari (su un totale di 13 milioni di persone che vivono nell’Artico), appartenenti a 20 diverse etnie, dall’altro c’è la consapevolezza che quegli stessi dati potranno essere utilizzati dalle compagnie estere per capire come, dove, quando scavare, e quale sarà il prossimo ghiacciaio che, accelerando la sua corsa verso il mare, svelerà nuove risorse minerarie. Ma, accanto a tutte le possibili considerazioni sui rischi che corriamo nell’ignorare i pericoli connessi al riscaldamento globale, resta la meraviglia, il senso di solitudine di un luogo così silenzioso da saper far risuonare anche i pensieri.
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