“Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle”
Scritto da Nina Jablonski, il libro è stato è stato recentemente tradotto e pubblicato in Italia.
In una puntata speciale del celebre Saturday Night Live di qualche anno fa, il comico Louis CK apriva lo spettacolo con un monologo su una buffa forma di “razzismo morbido”. A distanza di cinque anni, quello sketch andrebbe oggi un po’ rivisto, considerando che in America, e non solo, il mild racism sta cedendo il passo a vecchie forme di razzismo, non proprio morbide. Mentre negli Stati Uniti cresce un nuovo movimento antirazzista, ci ritroviamo a fare i conti, ancor prima che con i diritti delle persone, con i nostri istinti più primitivi, attorno all’elemento che ha giustificato secoli di soprusi e discriminazioni: il colore della pelle.
Colore vivo: impariamo a conoscere la nostra pelle
Perché la pelle? “Siamo uniti, e divisi, dal colore della nostra pelle. Forse nessun’altra caratteristica del corpo umano ha un significato più importante. Modellato dalle forze biologiche, il colore della pelle è arrivato a influenzare le nostre società in modi profondi e complessi. La sua storia definisce e rende unica la nostra specie.”
Nina Jablonski introduce in questo modo il suo libro “Colore vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle” (Bollati Boringhieri), edito nel 2014 negli Stati Uniti e di recente traduzione e pubblicazione in Italia. Jablonski è un’antropologa e docente presso la Pennsylvania State University, specializzata nello studio del colore della pelle, appunto. Meno nota in Italia, autrice di altri libri sull’argomento apprezzati negli states, è anche divulgatrice e attivista impegnata sui temi dell’evoluzione, della genetica, dell’antirazzismo.
Con questo saggio, Jablonski fa il punto sulle principali conoscenze acquisite finora in fatto di evoluzione dell’epidermide, un compendio di informazioni che aiuta a diradare i dubbi che ancora compromettono il nostro pensiero e il nostro atteggiamento di fronte a differenze nell’esteriorità, “Siamo animali visivamente orientati, ma non siamo geneticamente programmati per avere pregiudizi”.
Come indicato dal titolo, due sono gli aspetti della nostra pelle di cui tener conto, uno biologico, l’altro sociale-culturale.
Il diverso colore della pelle indica una diversità biologica che può giustificare una distinzione in razze umane? La risposta, e quindi la conclusione del libro è, o dovrebbe essere, abbastanza ovvia e prevedibile. Ma visto che l’interrogativo continua a insinuarsi nella quotidianità, non sempre bonariamente come nelle avventure metropolitane di Louis CK, e nonostante evoluzionisti, genetisti e antropologi abbiano risolto la questione da decenni la domanda non suona poi così retorica. Andrebbe magari riformulata in “Perché il diverso colore della pelle ci porta a pensare e a giustificare una distinzione in razze umane?”.
L’autrice prosegue ricordando la sua personale sorpresa nello scoprire che un suo trisavolo da lato materno era africano – sua madre era italoamericana – e il disagio che le capitava di osservare in famiglia nel tentativo di parlarne. È questo un dato genealogico che ci caratterizza tutti, naturalmente.
Biologia e sociologia: così distanti, così vicini
Quando gli Homo sapiens hanno cominciato a migrare dall’Africa 60mila anni fa circa, verso luoghi sempre più diversi, la pelle si è adeguata a temperature più basse, diverse illuminazione, idratazione e alimentazione, aiutandoci a sopravvivere.
Nel libro si segue questa trasformazione grazie alle tracce a nostra disposizione, interpretandola. Analizzando le varie sfumature di epidermide proprio come si fa con una tavolozza di colori, con tanto di spettri di assorbimento della radiazione luminosa tra le tante illustrazioni a supporto, osserviamo che nell’evoluzione dell’uomo c’è una relazione diretta tra posizione geografica/intensità luminosa, ovvero migrazioni, e variazioni nella pigmentazione. Raggi ultravioletti UV (e relativo impatto sulla melanina) e vitamina D giocano un ruolo cruciale nel colore della pelle. Sono evidenze, queste, acquisite sperimentalmente solo di recente, per quanto possano sembrare assodate. Del resto, lo stesso padre della teoria evoluzionista non era consapevole delle effettive conseguenze del clima. I dati raccolti nel giro di appena 15-20 anni, grosso modo dai tempi del progetto Genoma, sono abbondanti, Nina Jablonski ne mette insieme una buona parte, “unisce i puntini” colmando lacune e chiarendo molti aspetti dell’evoluzione della pelle. Per esempio, analizza se ci sono differenze di tonalità tra uomini e donne dello stesso colore, se in questo ha influito in qualche modo la dinamica di competizione sessuale. Un passo avanti importantissimo è la consapevolezza che i geni della pigmentazione si evolvono per conto proprio, indipendentemente da altri tratti, come la costituzione o il comportamento. Non esiste quindi un “pacchetto biologico” ereditario che li comprenda tutti contemporaneamente: non ha senso parlare di razze umane.
Il processo evolutivo continua tuttora. Oggi siamo incommensurabilmente più mobili rispetto ai nostri antenati, percorriamo distanze enormi in luoghi assai diversi tempi brevissimi, incomparabili a quelli evolutivi, mettendo così a dura prova il nostro bagaglio genetico, oltre a stressare la resistenza del pianeta stesso. Il prezzo da pagare in termini di salute è molto alto, soprattutto se si insiste a ignorarne le cause, attribuendole a presunte razze. Un caso emblematico di malattie aggravate dai pregiudizi raccontato nel libro è quello dell’America di fine ‘800: buona parte degli ex schiavi del sud e i loro figli si ritrovarono a gestire fenomeni di rachitismo, conseguenza di basse condizioni di insolazione e quindi di scarse riserve di vitamina D – dovute alle pessime condizioni di vita del dopo guerra civile, continuate poi a lungo – mentre si tendeva a liquidare il fenomeno come congenito nella popolazione nera. Considerazioni analoghe si possono fare per l’attuale aumento tra i neri di tumore alla pelle.
Gli studi non sono certo completi, per ammissione della stessa Jablonski ci sono ancora lacune da colmare sui meccanismi genetici alla base di certe differenze.
I progressi fatti sono comunque enormi, anche se siamo in ritardo visto che per troppo tempo si è evitato di studiare la pelle proprio per aggirare il rischio di incappare in odiose classificazioni razziali durate fino a buona parte del ‘900.
A dire il vero, l’atteggiamento condizionato dai pregiudizi è tipico soprattutto della modernità. Nella seconda parte del libro si ricorda infatti che Egizi, Greci e Romani conoscessero le diverse gradazioni di colore, ma non ne attribuivano una qualità razziale, un valore morale. Qualcosa inizia a cambiare, drammaticamente, con l’epopea delle esplorazioni e la tratta di schiavi africani. Opere come il milione di Marco Polo, intellettuali come Mandeville e Linneo hanno impresso un’influenza forte e determinante nella convinzione equivoca dell’esistenza delle razze. Le conseguenze di quella storia plurisecolare affollano le cronache ancora oggi, come noto. Dagli antichi Egizi al periodo coloniale, passando per il Rinascimento, Nina Jablonski prova a ricostruire una storia lunga e complessa. Sono tanti i fili messi insieme in questo libro: contraddizioni, equivoci, ipocrisie come quelle di Thomas Jefferson sulla schiavitù, strumentalizzazioni di opinioni, di ideologie, di religioni fino a tirare in ballo la bibbia, ma anche diversi intellettuali “contro” come Mark Twain e Immanuel Kant, fino ai fenomeni più recenti del “colorismo”, la voglia di diventare bianchi.
Impresa non semplicissima, sintetizzare millenni di evoluzione e di storia. Ma leggendo “Colore Vivo” diventa più chiaro perché il colore della pelle riesce a raccontare bene il cammino umano, e viceversa.
Servono nuovi linguaggi, ricominciamo dalle basi
Anche se le nostre conoscenze sono più larghe e vaste, sappiamo di essere una specie giovane e complessivamente omogenea, la percezione delle differenze continua a influire parecchio nelle nostre società. Serve allora un nuovo modello di linguaggio e di comunicazione di queste conoscenze, come fa notare l’antropologo Giovanni Destro Bisol. Del resto c’è anche una sfilza di razzismi “senza razza” (diversità di religione, orientamento sessuale ecc) che ci aspettano al varco, oltre la questione della pelle.
In questo senso, la scelta di separare così drasticamente i due aspetti, quello biologico e quello storico-sociale, con un linguaggio forse un po’ troppo accademico nella prima parte, lascia qualche incertezza sull’efficacia comunicativa del libro. Sembra infatti che si ricada nell’errore storico del dualismo, separando due concetti che devono invece trovare una sintesi. Ma non è detto che non sia la formula vincente, per ora.
Secondo uno studio pubblicato lo scorso anno su Science education, l’argomento razzismo è diventato predominio delle scienze umane, mentre nei programmi scolastici in biologia si tende ad aggirare la spinosa questione delle razze col risultato di non risolvere certe ambiguità, creando confusione negli adolescenti circa le differenze somatiche tra popolazioni. Bisogna correggere il tiro fin da subito già a scuola, insomma, riformando il metodo di insegnamento in certi passaggi. Negli stati uniti si cerca di correre ai ripari con progetti mirati.
Lo stile di questo libro, una guida valida e utile in questi tempi di rigurgiti razzisti, va quindi forse inquadrato in questo contesto, come un contributo a fare ordine partendo dall’abc, prima che sia troppo tardi. Comunque, almeno secondo Louis CK, saremo lo stesso condannati a pagare un conto salato secoli di discriminazione ingiustificata.
Leggi anche: Schadenfreude. La gioia per le disgrazie altrui
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.