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Il 2020, anno di cambiamenti per la fauna selvatica

La pandemia ha avuto diversi effetti sul mondo animale, spesso dalle dinamiche complesse: ecco i principali, insieme a qualche altra notizia interessante su ciò che questo anno ha portato per la ricerca e il benessere della fauna.

La pandemia di Covid-19 è stata senz’altro protagonista del 2020.  Anche per quanto riguarda gli animali, i suoi effetti si sono fatti sentire. OggiScienza ha raccontato, per esempio, della variante di SARS-CoV-2 emersa negli allevamenti di visioni in Danimarca, un’importante occasione di riflessione su quanto gli allevamenti, e più in generale il nostro rapporto con l’ambiente, possano avere un ruolo nell’emergere delle epidemie e della loro evoluzione.

Gli effetti dell’antropopausa

Per quanto riguarda il rapporto fra la nostra specie e l’ambiente, bisogna anche dire che la pandemia ha rappresentato anche l’occasione di un esperimento assolutamente non programmato. Parliamo del lockdown in diversi Paesi, che ha portato a quella che molti ricercatori hanno battezzato “antropopausa”, un periodo nel quale la ridotta mobilità e l’interruzione di molte attività hanno “alleggerito” la nostra pressione sull’ambiente.

Si leggeva spesso, durante le chiusure generalizzate, che “la natura si è ripresa i suoi spazi”, frase correlata dalle fotografie di animali selvatici a spasso per le città. Uno studio condotto in Italia e pubblicato a settembre su Biological Conservation ha mostrato che, in effetti, durante l’antropopausa alcune specie hanno potuto ampliare i propri areali e aumentare la loro attività (in particolare per quanto riguarda specie solitamente notturne, che sono state attive anche durante il giorno). Grazie alla diminuzione del traffico, poi, sono diminuite le morti di alcuni anfibi. Questo dato, peraltro, sembra non essere stato valido solo l’Italia ma anche alcuni Paesi degli Stati Uniti: un report del Road Ecology Center, infatti, ha segnalato un calo del 58 per cento per quanto riguarda gli investimenti mortali di grandi mammiferi come cervi e orsi, e un declino simile anche per specie domestiche come cani e pecore.

Già a giugno, comunque, un articolo apparso su Nature Ecology and Evolution avvertiva però che l’interruzione delle attività avrebbe potuto rivelare anche aspetti negativi per la conservazione delle specie, citando, per esempio, il rischio di un aumentato bracconaggio di specie protette dovuto ai minori controlli e alla diminuzione delle attività turistiche: come scrive National Geographic, infatti, in Uganda la presenza di turisti è un deterrente per i bracconieri, nonché la fonte di finanziamento per tutto il lavoro di controllo nei parchi. E se, per esempio, in Sudafrica la limitazione degli spostamenti internazionali sembra aver portato, nella prima metà dell’anno, a una diminuzione dei casi di bracconaggio di rinoceronti, in effetti l’organizzazione no profit Conservation Internationl riporta anche un diffuso aumento del bracconaggio e della deforestazioni in diversi Paesi del mondo.

Ancora, il blocco delle attività ha coinvolto, ovviamente, anche le attività di conservazione delle specie a rischio e di contrasto alle specie aliene, con effetti potenzialmente deleteri. In generale, comunque, gli effetti della pandemia sulla conservazione hanno meccanismi complessi e saranno necessari più tempo e studi per capirne le conseguenze a lungo termine.

La pandemia e il mercato cinese

Un effetto apparentemente più semplice e immediato della pandemia è quello che ha portato alla modifica della regolamentazione cinese sul commercio e consumo delle specie selvatiche.

Già a fine gennaio, la Cina aveva sospeso il commercio di fauna selvatica nei mercati, nei ristoranti e per l’e-commerce; poco dopo, il 24 febbraio, è stato deciso il divieto di commercio e consumo di specie selvatiche, nonché l’allevamento di specie selvatiche terrestri. A giugno, inoltre, il governo cinese ha anche aumentato il livello di protezione del pangolino, tra gli animali più trafficati del pianeta, portandolo allo stesso livello di tutela del panda. In più, le scaglie di pangolino sono state eliminate dalla lista di ingredienti approvati per la medicina tradizionale.

Ma anche qui, a ben vedere, la situazione è più complessa di quanto appaia a prima vista. Per esempio, se da una parte c’è l’eliminazione delle scaglie di pangolino dalla lista di ingredienti approvati per la medicina tradizionale, la Commissione nazionale per la salute cinese ha anche indicato, come possibile farmaco contro COVID-19, il Tan Re Quing, che vede tra i principali ingredienti la bile d’orso; e, come spiega un articolo su Scienza in rete, gli allevamenti in cui sono tenuti gli animali pongono molti problemi etici (legati per esempio alle condizioni in cui sono tenuti gli animali, senza contare che l’estrazione della bile è una pratica invasiva), e non manca comunque il mercato illegale.

Ancora, non si sa se il divieto di commercio di specie selvatiche sarà reso permanente, ma anche questa eventualità porta ad alcune riflessioni che ne evidenziano la natura complessa. Intanto, come OggiScienza aveva ricordato qui, fin dalla prima decisione alcuni ricercatori avevano notato come gran parte del commercio sia già illegale, per cui al divieto vanno affiancati controlli più severi e campagne educative, perché il divieto può sfociare in un ulteriore aumento del commercio illegale.

Ci sono, inoltre, alcune altre considerazioni: come riporta un bell’articolo del Financial Times, infatti, il divieto ha creato molti problemi agli allevatori di specie selvatiche (problemi che vanno anche a scapito degli animali), per i quali gli aiuti del governo sono stati rimandati.

Non solo Covid-19: cognizione animale

Allontanandosi dagli effetti della pandemia, vale la pena segnalare qualche altra notizia per quanto riguarda il 2020 “animale”.

Tra i breakthrough dell’anno, infatti, Science segnala due interessanti studi sulle abilità cognitive e le caratteristiche cerebrali degli uccelli, entrambi pubblicati a settembre. Il primo è un lavoro basato su una tecnica detta 3D polirized light imaging, che ha permesso di studiare una struttura chiamata pallio nell’encefalo del piccione selvatico e del barbagianni, quindi due specie filogeneticamente distanti tra loro. Lo studio ha mostrato che, in entrambi gli animali, il pallio presenta una neuroarchitettura inaspettatamente simile a quella della neocorteccia dei mammiferi. Osservate, queste ultime, soprattutto nei corvidi: e proprio nei corvidi è stata condotta la seconda ricerca, che ha indagato la consapevolezza aviaria studiando proprio i neuroni del pallio delle cornacchie. I ricercatori hanno individuato in questa regione l’attivazione di neuroni che indicherebbero la capacità degli uccelli di essere consapevoli di ciò che vedono e fanno (anche se, come spiega il neuroscienziato Giorgio Vallortigara su Il Bo Live, serve ancora un po’ di cautela nell’interpretazione dei risultati).

Non solo Covid-19: i diavoli della Tasmania

Il 2020 è anche l’anno che ha visto il ritorno del diavolo della Tasmania nell’Australia continentale. Si tratta di un passo importante per la conservazione della specie, messa a rischio dalle uccisioni condotte fino agli anni Novanta, dalla predazione e, soprattutto, dal Devil Facial Tumor Disease (DFTD), una forma di cancro trasmissibile (di due tipi in realtà, come OggiScienza aveva raccontato qui) che colpisce unicamente questa specie. Il progetto di rewilding, portato avanti da tre diversi gruppi di conservazione, ha riportato la specie sul continente australiano per la prima volta in 3.000 anni: finora, infatti, i pochi individui rimasti erano confinati allo stato insulare della Tasmania. Gli individui rilasciati, tutti sani, saranno monitorati con attenzione e, se riusciranno a stabilirsi con successo, saranno raggiunti da altri.

La reintroduzione è importante anche perché il diavolo della Tasmania ha un ruolo ecologico significativo: come spiega Aussie Ark, una delle associazioni conservazioniste che ha contribuito alla reintroduzione, il diavolo della Tasmania è infatti il marsupiale carnivoro più grande del mondo, per cui la sua espansione sul continente potrebbe aiutare a contenere, attraverso la competizione per le risorse, specie invasive come il gatto, che mettono a rischio la fauna endemica. Inoltre, essendo scavenger, cioè “spazzini”, aiutano a mantenere l’ambiente pulito, limitando il rischio d’insorgenza di malattie.

Concludiamo con altre due buone notizie per gli animali: una è il voto del Parlamento europeo a favore del divieto dell’utilizzo di proiettili di piombo (fonte di intossicazione per molte specie) nella caccia nelle zone umide; l’altra è la decisione della Francia di bandire gradualmente l’impiego di animali per gli spettacoli circensi, nonché l’allevamento di orche e delfini in cattività, e vietare l’allevamento dei visoni da pelliccia.


Leggi anche: Umani e delfini, cosa succede quando si immergono

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.