RICERCANDO ALL'ESTERO

Bilinguismo: come fa il cervello a gestire due lingue?

Le persone bilingui attivano una serie di meccanismi cognitivi per parlare correttamente nella lingua desiderata, evitando interferenze e selezionando l’una o l’altra lingua a seconda del contesto di conversazione.

Qualche settimana fa abbiamo parlato dei meccanismi con cui il cervello rappresenta e rielabora il linguaggio. Qui l’articolo.
Ma cosa succede quando le lingue che parliamo e comprendiamo sono due o più? Oltre metà della popolazione mondiale parla più di una lingua e negli ultimi anni la ricerca scientifica si è concentrata parecchio sui processi cognitivi e linguistici delle persone bi- e multilingue.

Francesca Branzi è all’Università di Cambridge (UK) per studiare i processi cognitivi e le aree del cervello che permettono di attivare e integrare l’informazione semantica (cioè il significato delle parole) nella comprensione e nella produzione linguistica dei soggetti multilingue.


Nome: Francesca Branzi
Età: 36 anni
Nata a: Bologna
Vivo a: Cambridge (Regno Unito)
Dottorato in: biomedicina (Spagna https://www.upf.edu/web/spb)
Ricerca: controllo cognitivo nel linguaggio e nella memoria semantica
Istituto: MRC Cognition and Brain Sciences Unit, University of Cambridge
Interessi: andare a teatro, correre, ascoltare musica, viaggiare, concerti di musica jazz,
Di Cambridge mi piace: l’architettura, la natura e le bellissime campagne
Di Cambridge non mi piace: è piccola, ci sono principalmente accademici
Pensiero: Those who know nothing of foreign languages know nothing of their own. (Goethe)


Come cambiano i processi cognitivi nei soggetti multilingue?

Rispetto ai monolingue, coinvolgono tutte quelle abilità cognitive richieste nell’intenzione di parlare in una certa lingua, la selezione della parola nella lingua desiderata, l’inibizione delle parole nella lingua non target e il monitoraggio del discorso per impedire eventuali intrusioni.

La selezione delle parole è un passaggio cruciale nella produzione del parlato. Sappiamo che quando i bilingui vogliono parlare in una certa lingua non attivano solo le informazioni che corrispondono alla lingua desiderata ma tutta l’informazione presente nella loro enciclopedia mentale. Questo è emerso sia da studi su soggetti sani, in cui si è vista una coattivazione di più lingue anche in un contesto monolingue, sia su pazienti neurologici con lesioni in aree del cervello importanti per il controllo cognitivo linguistico. Questi pazienti mostrano una commutazione (switching) e/o una mescolanza (mixing) delle lingue a livello patologico. In pratica, sia alternano le varie lingue in espressioni diverse (un segmento autonomo del discorso in una lingua, un altro in una un’altra) sia mescolano lingue diverse all’interno di una singola espressione.

La mia ricerca riguarda in particolare lo switching linguistico e il coinvolgimento delle aree cerebrali nel controllare l’interferenza della lingua non voluta.

Come si studia lo switching linguistico?

Ci sono diversi metodi. Alcuni prevedono misurazioni comportamentali, in cui si registrano i tempi di reazione in una situazione in cui bisogna fare un cambio di lingua (switch linguistico) o un cambio di altro tipo. E si confrontano con situazioni senza cambio.

Il tempo di reazione dà idea del “costo” fisiologico richiesto al cervello per svolgere quel certo compito. L’ipotesi di base è che se i processi cognitivi sono simili, allora c’è una correlazione tra il costo di cambio linguistico e quello non linguistico.
Nella pratica, presentiamo a dei volontari delle immagini di oggetti reali, vivi o non vivi, assieme al simbolo di una bandiera che indica la lingua in cui l’oggetto deve essere nominato. Nella prima condizione sperimentale viene presentato l’oggetto A seguito da B, entrambi con la bandiera della lingua dominante; successivamente, c’è sempre l’oggetto B con la bandiera della lingua dominante, ma prima c’è un oggetto C con una bandiera diversa (si parla di switch linguistico).

Secondo alcuni modelli di neurolinguistica, il costo per il cervello esiste perché nel nominare l’oggetto C si sono inibite tutte le parole conosciute nella lingua dell’oggetto B e recuperare/riattivare le parole inibite ha un costo.

In che cosa consistono i compiti non linguistici?

In questo caso presentiamo le stesse immagini ma, invece del nome dell’oggetto, va indicata la categoria semantica di appartenenza (per esempio, vivo o non vivo). Anche qui, le condizioni sperimentali possono prevedere due oggetti della stessa categoria e oggetti di categorie diverse.
Alla fine, si confrontano tutti i tempi di reazione, linguistici e non linguistici. Ovviamente, prima di iniziare i test è importante verificare che siano uniformati per livello di difficoltà, per non influenzare i processi di controllo cognitivo.

Un altro metodo di studio prevede l’uso della risonanza magnetica funzionale per valutare l’attivazione delle aree del cervello coinvolte nei compiti linguistici a confronto con quelli non linguistici. Così facendo possiamo verificare se il controllo cognitivo che si instaura è di tipo dominio-specifico per il linguaggio o dominio-generale (cioè coinvolge in modo simultaneo e uniforme tutto il sistema cognitivo).

Quali aree si attivano durante questi compiti?

I processi di elaborazione del linguaggio nei bilingue sono associati alle aree cerebrali del lobo frontale, del lobo parietale dorsale inferiore e a un network di aree molto lateralizzate a sinistra come la corteccia cingolata anteriore e l’area motoria supplementare.

La mia ricerca mostra che sia durante i compiti di switch linguistico che di switch non linguistico c’è il reclutamento della corteccia prefrontale sinistra e del lobulo parietale inferiore sinistro. Non solo si attivano le stesse aree ma l’attivazione ha la stessa intensità e questo probabilmente perché i processi cognitivi coinvolti non sono specifici per il linguaggio.

Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?

C’è molto dibattito su quanto certe aree di controllo cognitivo siano effettivamente usate dai bi- e multilingue in contesti più naturalistici, ovvero in situazioni in cui possono decidere autonomamente di cambiare di lingua (per esempio quando vedono il volto di una persona che sanno parlare una determinata lingua).

Il lavoro che abbiamo fatto finora prevede la somministrazione di compiti molto artificiali ma si è visto che se i compiti diventano più naturalistici i risultati un po’ cambiano e le aree frontali sono molto meno coinvolte. Questa evidenza sperimentale contrasta però con la clinica in cui danni a queste aree portano all’incapacità di esprimersi nella lingua richiesta.
Vorrei capire il perché di questa dissociazione tra clinica e esperimenti.


Leggi anche: Come il nostro cervello dà un significato al mondo

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Luisa Alessio
Biotecnologa di formazione, ho lasciato la ricerca quando mi sono innamorata della comunicazione e divulgazione scientifica. Ho un master in comunicazione della scienza e sono convinta che la conoscenza passi attraverso la sperimentazione in prima persona. Scrivo articoli, intervisto ricercatori, mi occupo della dissemination di progetti europei, metto a punto attività hands-on, faccio formazione nelle scuole. E adoro perdermi nei musei scientifici.