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Storia evoluzionistica: una nuova sintesi

Tradizionalmente separate e arbitrariamente distanziate, la storia e la biologia hanno in realtà terreno comune: fin da tempi antichi la presenza umana è una forza selettiva dal grande impatto.

“La sintesi di storia e di biologia ci permette di decodificare il mondo attorno a noi meglio di quanto questi due campi non possano fare da soli.” Così chiosa a pagina 237 Edmund Russell, portando a un finale quantomeno aperto il suo audace saggio: “Storia ed evoluzione. Un nuovo ponte tra umanesimo e scienza”, tradotto nel 2020 da Bollati Boringhieri.

Che uno storico utilizzi la propria peculiare prospettiva per analizzare una disciplina non è certo una notizia, non avremmo interi scaffali di biblioteca dedicati alla storia della scienza o alla storia della filosofia. Che lo stesso proponga di fondere la propria disciplina con un altro campo del sapere, dal quale peraltro è stata sempre ritenuta convenzionalmente avulsa, è singolare. Edmund Russell crede nell’efficacia e nelle potenzialità di un nuovo campo di studi che unisca la storia umana all’evoluzione naturale, e ne conia subito il nome: storia evoluzionistica.

Le nostre reminiscenze scolastiche gettano una flebile luce sulle nozioni relative all’evoluzionismo darwiniamo che, poco poco, ci risultano familiari: selezione naturale, selezione sessuale, il collo lungo delle giraffe… No, quello era Lamarck, accidenti! In ogni modo, siamo stati abituati a pensare alle dinamiche che governavano il mondo prima dell’invenzione della scrittura, e quindi prima della Storia, come a qualcosa di remoto, perlopiù sconosciuto e che certamente oggi non ha più alcun potere esplicativo. Ora i protagonisti degli eventi siamo solo noi, un unicum immutabile e autoreferenziale tra gli esseri viventi, i quali per la restante gran parte occupano solo il fondo del palcoscenico, silenziosi.

Le azioni umane come forza selettiva

Attraverso numerosi e documentati esempi, Edmund Russell contribuisce a sfatare questa credenza comune, mostrando da un lato come le azioni umane abbiano fin da tempi molto antichi condizionato l’evoluzione biologica e rappresentato quindi una forza selettiva molto impattante, in grado di cambiare le sorti di tantissime specie, Homo sapiens inclusa, e di moltissimi ecosistemi. Dall’altro evidenzia come, a sua volta, l’evoluzione biologica abbia condizionato l’attività umana.

Nel mondo contemporaneo la potenza dell’evoluzione antropogenica ha raggiunto i vertici. Un esempio molto recente ma molto esemplificativo, portato da Russel, riguarda la resistenza di virus e batteri agli antibiotici e ai pesticidi: grazie alla pressione esercitata dal nostro desiderio di eradicare questi microscopici nemici per combattere le patologie che provocano abbiamo, talvolta inconsapevolmente, incoraggiato la loro mutazione e quindi la loro evoluzione, con conseguenze interspecifiche su vasta scala. Ma le implicazioni di questo nuovo approccio non finiscono qui, per Russell. Anche le sovrastrutture, di carattere eminentemente storico, che l’essere umano ha inventato possono cambiare l’evoluzione naturale.

Le istituzioni politiche, ad esempio, sono in grado di prendere decisioni su ogni settore della vita produttiva e di conseguenza possono incoraggiare o scoraggiare determinati comportamenti, come il finanziamento alla ricerca sugli Ogm o l’applicazione di pesanti tasse sulla produzione del carbone, con forti conseguenze di carattere evoluzionistico.

Le dinamiche, i processi e gli intrecci che Russell evidenzia nel suo saggio sono innumerevoli, multidirezionali e talvolta complessi da comprendere a fondo. Per capire l’effettiva concretezza applicativa di un campo di studi che pare così avanguardistico, abbiamo chiesto un parere a due esperte: una biologa evoluzionista, la professoressa Maria Giovanna Belcastro, e una storica della scienza, la professoressa Paola Govoni; entrambe dell’Università di Bologna.

Tradizione antropocentrica

“Di fatto – spiega Belcastro –  chi si occupa di biologa evoluzionistica si occupa di leggere i fenomeni naturali anche dal punto di vista ‘storico’. Occorrerebbe uscire dagli steccati disciplinari per interpretare la storia umana; in questo caso potrebbe essere proprio la Storia (comunemente a partire dalla comparsa della scrittura) ad avere anche benefici dallo studio della preistoria, ancora molto poco conosciuta e affrontata nella formazione scolastica”.

In effetti, osservando il percorso svolto dalla nostra specie in una prospettiva storica tradizionale, siamo incoraggiati a ritenerci gli unici responsabili delle grandi rivoluzioni del genere umano: agricoltura, industria, etc. Attribuiamo ogni merito alle nostre peculiari abilità e sottovalutiamo i fattori esterni. L’approccio della storia evoluzionistica mette in crisi questa prospettiva, sottolineando la rilevanza del cosiddetto “mondo naturale” quantomeno nel porre le condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per l’avvio di tali radicali cambiamenti. Russell sostiene, ad esempio, che lo sviluppo dell’industria tessile all’alba della prima rivoluzione industriale non sarebbe probabilmente stato possibile senza la presenza di specifiche contingenze biologiche: una qualità di cotone particolarmente resistente alle sollecitazioni delle macchine.

“Un approccio integrato è senz’altro condivisibile”, afferma poi la storica Govoni. “La nostra prospettiva antropocentrica, che ormai a me pare follia, ci ha portato, come specie, alla crisi climatica e alla pandemia in atto. Credo che ogni stimolo che ci riporti ‘down to Earth’, per dirla con Bruno Latour, sia di grande importanza: soprattutto in ambito educativo dovremmo ricordare più spesso che tra le specie e l’ambiente ci sono una coevoluzione e una interdipendenza profonde che non possiamo ignorare. In passato avremo anche sofferto di determinismo biologico, ma da troppo una sorta di determinismo culturale ci ha fatto dimenticare chi siamo: non siamo dei, ci ricorderebbe il Gattopardo, ma una specie tra le altre.

Nemmeno troppo intelligente, direi, viste le devastazioni che siamo riusciti a realizzare. Per comprendere fenomeni complessi come quelli che ci riguardano, intrinsecamente naturali e culturali, è necessario lavorare con più strumenti, facendo dialogare le scienze naturali con le scienze sociali.  In Italia a questo proposito abbiamo un problema (tra i molti): il sistema della ricerca è organizzato in 383 settori scientifico-disciplinari. Conto molto sulla pandemia, un fenomeno inaffrontabile se non si adotta un approccio che ignori i confini disciplinari”.

L’approccio integrato che spaventa ancora

Permangono tuttavia delle resistenze, forse di carattere ideologico, allo sviluppo di approcci interdisciplinari e integrati. Inoltre esiste un divario molto netto in tal senso tra il mondo della ricerca e quello della formazione: la seconda rimane molto più arroccata su impostazioni dicotomiche e sulla verticalità delle conoscenze. Per questa ragione, “si tratta di un percorso che deve prendere avvio dalla scuola”, sottolinea la biologa Belcastro. “Occorre superare quella dicotomia tra discipline umanistiche e scientifiche, tra natura e cultura, etc. Occorre promuovere una visione nuova dell’umanità nel mondo naturale, che avrebbe anche un impatto rilevante nelle relazioni con l’ambiente, riflettendo su quella struttura gerarchica e piramidale che abbiamo creato: tra popolazioni diverse, tra uomini e donne, e tra umanità intesa nel suo complesso e il resto del mondo naturale. Occorre pensare a un ecosistema in cui tutti siamo immersi. Covid 19 insegna!”

Durante l’Ottocento nacquero diversi approcci che connettevano trasversalmente biologia e scienze umane, ma furono fallimentari. Il fallimento scientifico più noto in questo ambito è il darwinismo sociale, paradigma che si rivelò terreno fertile per le teorie razziste. È credenza di molti che forse qualche titubanza permanga ancora oggi tra gli accademici nel tentare di unire concetti propri della biologia con quelli delle scienze umane, per via di tali passate degenerazioni.

“La ricerca è andata avanti e non ritengo ci sia il pericolo di ricadere in vecchi schemi. Vedo per esempio positivamente il successo che finalmente anche in Italia iniziano ad avere gli STS, gli studi su scienza, tecnologia e società, studi interdisciplinari che sono molto utili per affrontare fenomeni allo stesso tempo naturali, tecnologici e sociali: studi che devono offrirsi come un ponte tra le scienze naturali e sociali”, rassicura Govoni.

“Non credo esistano impedimenti concreti nella condivisione di indagini sperimentali da parte di differenti specialisti e specialiste, in molti settori accade continuamente: nella ricerca sul cancro, negli studi sul clima e sull’intelligenza artificiale, in neuroscienze e molto altro. La ricerca integrata non è, com’è ovvio, la soluzione definitiva.  Tutte le ricerche sono parziali e situate, imperfette. La stessa interdisciplinarità, per quanto sia da ritenere auspicabile in tanti casi, non è l’unico approccio scientifico che funziona. Diciamo che è più probabile fare meno errori se siamo aperte al confronto e alla collaborazione tra punti di vista diversi, quantomeno si alza l’indice di controllo reciproco”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Simone Chiusoli
Sono laureato in scienze cognitive e mi affascina tutto ciò che ha l'essere umano come oggetto di studio scientifico. Grazie al MCS della SISSA ho scoperto il potenziale incredibile della comunicazione scientifica e quanto essa si riveli indispensabile oggigiorno. Attualmente mi sto dedicando alla comunicazione dell'evoluzione attraverso una prospettiva interdisciplinare, che faccia dialogare biologia e scienze umane.