CERVELLI ARTIFICIALI

Sei sicuro di non avere nulla da nascondere online?

Per difendersi dalla truffe, aumentare le probabilità di essere assunti o prevenire una discriminazione: un giurista ci spiega perché è consigliabile condividere meno informazioni sui social.

Perché devo preoccuparmi della mia privacy online se non infrango la legge o – in generale – non ho niente da nascondere? Per provare a rispondere a questa domanda abbiamo intervistato Giovanni Ziccardi, professore di Informatica Giuridica presso l’Università di Milano.

Schedature social

“Il fatto che un’informazione che ci riguarda non sia di per sé da nascondere non significa che siamo disposti a condividerla con chiunque”, esordisce Ziccardi.

Un esempio eclatante a questo proposito è quello relativo al reddito. Nel 2008, alla pubblicazione da parte dell’Agenzie delle Entrate delle dichiarazioni dei redditi di tutti i cittadini italiani, seguirono molto polemiche e una sanzione del Garante. Negli anni successivi i dati non sono più stati pubblicati. “Eppure per una multinazionale del settore tecnologico non è così difficile farsi un’idea, anche piuttosto precisa, di quanto guadagniamo. Anche se non lo abbiamo mai dichiarato esplicitamente da nessuna parte”, riflette. Questo succede in particolare se gli algoritmi che processano le tracce che lasciamo in rete mettono insieme più informazioni, per esempio i gruppi in cui siamo iscritti sul nostro social preferito con la data di nascita o i like ai post.

“Di fatto aziende private in grande crescita ci attribuiscono un punteggio. Se queste aziende in un prossimo futuro entreranno nel settore bancario e dovranno decidere se concedere o meno un prestito, potranno utilizzare quel punteggio in modo discriminatorio”, spiega Ziccardi.  

Truffe e manipolatori

I rischi non arrivano solo dalle piattaforme, ma anche dagli altri utenti o organizzazioni che possono vedere le nostre informazioni e utilizzarle con fini malevoli, come per compiere una truffa o approfittare delle nostre debolezze. Pensiamo ai gruppi di auto-aiuto, dove le persone parlano delle proprie patologie con gli altri utenti. “Se questi spazi non sono sono dotati di adeguate misure di sicurezza, possono essere oggetto di attacco. Per esempio è successo che sedicenti venditori di farmaci fossero entrati in gruppi dove si parlava di depressione per proporre medicinali pericolosi per la salute”. 

C’è poi chi cerca di condizionare il voto: “Il caso di Cambridge Analytica, che aveva raccolto i dati personali di 87 milioni di account Facebook senza il loro consenso e li aveva usati per scopi di propaganda politica, ci ha messi di fronte al fatto che non abbiamo un reale controllo sui nostri dati”, prosegue Ziccardi.

Rischi al lavoro

Un altro ambito che può essere condizionato da ciò che pubblichiamo in rete è quello lavorativo. “Una storia istruttiva a questo proposito è quella del datore di lavoro che acquistava dati di monitoraggio della gravidanza delle sue dipendenti dai gestori di un’app specifica”. Anche se in buona fede – l’obiettivo era evitare le mansioni più faticose in determinati periodi – l’uomo aveva avuto accesso a dati personali legati alla sfera della salute che non avrebbe dovuto vedere.

C’è poi chi perde il lavoro per il post sbagliato. “Un uomo è stato licenziato dopo aver pubblicato sui social un’immagine che lo ritraeva con un fucile. Per il datore di lavoro era venuto meno il rapporto di fiducia, nonostante l’arma fosse detenuta regolarmente”, racconta Ziccardi.

Guardare i profili social e le informazioni in rete è prassi anche prima delle assunzioni. “I miei studenti spesso passano da me a pochi giorni dalla laurea, prima di andare a fare i primi colloqui. Sono vestiti in modo elegante e la loro immagine è molto diversa rispetto a quando erano studenti. Il problema è che nelle foto sui social appariranno ancora come studenti universitari, un’immagine che di fatto non rispecchia questa nuova fase della loro vita, ma che chi fa il colloquio, munito di computer, avrà sotto gli occhi durante tutta l’intervista”. 

Lifting digitali

Il problema è reale e sentito, tanto che chi si accorge che la propria immagine social non lo rispecchia (più) oggi si può rivolgere ad apposite agenzie che si occupano di ripulire la reputazione online. Una sorta di chirurgia estetica digitale: “Sono nate come servizi per politici o comunque personaggi pubblici, ma sempre di più sono richiesti anche dai comuni cittadini”, racconta Ziccardi. 

Queste società utilizzano figure come tecnici informatici e avvocati specializzati per eliminare, deindicizzare o modificare i contenuti che riguardano il cliente, con lo scopo che gli altri utenti non possano più trovarli.

In generale, quello della cancellazione dei contenuti dalla rete è uno dei temi emergenti nel panorama del diritto. Gli esperti discutono per esempio di come tutelare i minori, che spesso si trovano involontariamente sui social fin dai primi istanti di vita, ma anche i defunti, i cui profili e dati sopravvivono su internet. 

“Prima dei big data lasciavamo pochissime tracce, al massimo qualche foto. Adesso, e sempre di più nei prossimi anni, si pone il problema di gestire quella grande massa di contenuti indicizzati e correlati tra loro che di fatto vanno a costruire la nostra reputazione in rete, che non sempre ci piace e a volte arriva persino a danneggiarci. Per questo c’è la necessità di trovare metodi sempre più efficaci per cancellare questo materiale”.

Nel frattempo il consiglio del giurista è quello di prevenire il più possibile, usando la rete con consapevolezza: “Non serve fuggire dai social, basta riflettere prima di pubblicare: questo contenuto potrebbe danneggiarmi in qualche modo, oggi o in futuro?”


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Immagini: Pixabay

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Viola Bachini
Mi occupo di comunicazione della scienza e della tecnologia. Scrivo su giornali e riviste, collaboro con case editrici di libri scolastici e con istituti di ricerca per la comunicazione dei risultati al grande pubblico. Ho fatto parte del team che ha realizzato il documentario "Demal Te Niew", finanziato da un grant dello European Journalism Centre e pubblicato in italiano sull'Espresso (2016) e in spagnolo su El Pais (2017). Sono autrice del libro "Fake people - Storie di social bot e bugiardi digitali" (Codice - 2020).