Idrogel e medicina: un buon sodalizio
Grazie alle loro proprietà, gli idrogel hanno innumerevoli applicazioni in ambito medico, sia presenti che future
Molte volte li utilizziamo senza saperlo, altre non avremmo nemmeno immaginato che potessero essere in grado di svolgere determinate funzioni, moltissime ancora in fase di studio: Laura Russo, ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, presso il Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze e Visiting Researcher della National University of Ireland, Galway, ci fa entrare nell’inaspettato mondo degli idrogel impiegati in campo medico.
Cosa sono gli idrogel?
Gli idrogel sono delle formulazioni che si comportano in una maniera particolare in ambiente acquoso. Normalmente sono dei polimeri reticolati che possono essere naturali, sintetici, spesso e volentieri sono un mix, che si adattano benissimo all’ambiente biologico proprio per questa loro capacità di interagire con l’acqua e di assorbirla.
Ci sono applicazioni più note e altre meno conosciute, ma è sostanzialmente la loro capacità di interagire molto bene interfacciandosi con i sistemi biologici a renderli uno strumento preziosissimo in ambiente biomedico.
Quali sono le principali applicazioni?
Gli idrogel, per esempio, possono essere utilizzati come medical device, quindi come materiali che vanno a riparare un danno tissutale. Grazie alle loro caratteristiche fisiche spesso e volentieri sono anche iniettabili, diventando quindi una soluzione mini-invasiva da applicare in loco – mentre optando per altri materiali si sarebbe costretti a utilizzare un approccio più invasivo.
Ma le proprietà degli idrogel non si fermano a questo: la loro capacità di assorbire acqua è utilizzata anche per problematiche di tipo nutrizionale. Esistono dei prodotti dietetici, composti da polimeri reticolati, che possono essere assunti sotto forma di capsule in caso di obesità, in grado di catturare acqua gonfiandosi e dando un senso di sazietà. Anche nei cosmetici ci sono diverse applicazioni: possiamo ritrovarli nelle formulazioni di diverse creme, emulsioni, trattamenti per il viso, maschere per i capelli. Per non parlare di qualcosa che molti di noi utilizzano, magari senza pensarci troppo: le lenti a contatto.
Questa capacità di interagire con acqua e ambiente esterno li rende degli strumenti con un numero di applicazioni veramente molto ampio, e che naturalmente varia a seconda della composizione dell’idrogel, quindi a seconda dei polimeri che si andranno a usare per formularlo.
Anche sulle ferite si cerca di avere un approccio combinato, con un cerotto con idrogel al cui interno sono stati inseriti dei composti – delle nanoparticelle d’argento, con proprietà antibatteriche, per esempio – che limitino l’adesione batterica: non solo un aiuto dal punto di vista delle capacità di riparazione del tessuto, ma anche un qualcosa in più. Si tratta di un equilibrio molto sottile, perché da un lato devo avere la rigenerazione del tessuto – e per avere questa sarà necessario un materiale in grado di stimolarlo -, dall’altra c’è un rischio a bilancio, ovvero quello della proliferazione batterica, e per questo vengono utilizzati dei polimeri (alcuni hanno blande proprietà antibatteriche o sono in grado di limitarne l’adesione), o delle formulazioni che vengono rilasciate e che in qualche modo prevengono l’insorgenza di infezioni. In alcuni casi vengono inseriti all’interno anche dei farmaci già esistenti, perché incapsularli in una matrice reticolata permette di avere più controllo sul rilascio, che avviene su tutta la superficie di contatto e in maniera graduale.
Si parla sempre di un equilibrio, in ogni caso, è necessario studiare bene il polimero, formularlo appositamente, perché anche a seconda di come è reticolato avrà delle proprietà differenti. Lo stesso avviene per le lenti a contatto, hanno formulazioni gel di altro tipo rispetto a quello delle ferite, ma ormai c’è un grado di sicurezza impressionante, anche sulle monouso e simili, e si riesce a mantenere l’idratazione in una zona delicata come gli occhi senza andare incontro a infezioni.
Quali sono le prospettive per il futuro?
Si mira ad arrivare a idrogel sempre più intelligenti, non soltanto capaci di mantenere una certa condizione fisica, ma anche di controllare al meglio quello che è il microambiente biologico di cui sono l’interfaccia.
Un esempio può essere quello del 3D bioprinting, versione un po’ più avanzata della stampa in 3D che conosciamo. Mediante il 3D bioprinting possiamo formulare dei simil-tessuti biologici, che possono essere utili per studiare al meglio una patologia, per avere dei risultati preliminari nei test dei farmaci, oppure per il settore alimentare si sta studiando la possibilità di ottenere addirittura cibi “bioprintati”, come pollo e bistecche di manzo cruelty-free, utilizzando matrici di tipo vegetale. Circa un anno fa una nota catena di fast food americana aveva addirittura annunciato di voler stampare i propri nuggets di pollo…
Parentesi golosa a parte, il 3D bioprinting funziona proprio secondo lo stesso principio delle stampanti a cui avete visto sfornare vari oggetti variopinti: invece di cartucce di materiale plastico, che esce poi dall’estrusore a siringa per la stampa 3D, avremo delle cartucce di idrogel – perché chiaramente per andare a riformare del tessuto, che sia vegetale o animale, ci vuole quel tipo di condizione acquosa – e sospese nell’idrogel si inseriscono delle cellule. Una volta che queste ultime sono stampate con l’idrogel giusto possono essere indotte a formare un tessuto. Questi idrogel devono avere al tempo stesso sia la capacità di essere estrusi, sia quella di permettere alle cellule stampate di andare a formare quella rete di contatti che poi danno luogo al tessuto: in termini di proprietà fisiche è decisamente una bella sfida. In alcuni casi la ricerca è già piuttosto avanti, mentre in altri, più complessi, si è ancora all’inizio…
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