L’Accademia Slovacca delle Scienze studia le singolarità delle piante nell’area di Cernobyl per capire come la vita si difende dalle radiazioni nucleari
Se lo sceneggiatore di un film hollywoodiano dovesse immaginare uno scenario postatomico lo descriverebbe probabilmente come un luogo arido e inospitale. Basterebbe però una breve visita all’area intorno alla ex-centrale nucleare di Cernobyl per fargli cambiare idea. Nella zona intorno al reattore, che nel 1986 è stato luogo del più grave incidente in una centrale nucleare della storia – l’unico al quale l’IAEA ha dato il livello 7 della scala INES -, la vegetazione è rigogliosa e ha preso il posto degli esseri umani che invece hanno praticamente abbandonato tutto nel raggio di trenta chilometri.
La vita in questa zona continua ad adattarsi, e anche se studi confermano che le radiazioni hanno avuto un effetto sulla fisiologia di uccelli, umani e insetti, la vegetazione a uno sguardo superficiale sembra non aver subito danni e prospera indisturbata, invadendo addirittura le costruzioni abbandonate dagli esseri umani. Martin Hajduch, biologo vegetale dell’Accademia Slovacca delle Scienze, e colleghi hanno analizzato i semi di soya provenienti dalla zona per capire come queste piante si sono adattate per sopravvivere al fallout nucleare.
I ricercatori slovacchi hanno piantato dei semi di soya entro il perimetro di trenta chilometri intorno alla base interdetto al pubblico, a soli cinque chilometri dal reattore, e altri semi identici a oltre cento chilometri dalla centrale, dove i livelli di cesio-137, uno degli elementi radioattivi che permangono più a lungo nei terreni contaminati, sono più bassi di 163 volte. Dopo alcuni mesi gli scienziati hanno raccolto i semi figli delle piante originali e hanno analizzato le proteine che contenevano. I risultati di quest’analisi sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Proteome Research.
I semi provenienti dall’area contaminata apparivano strani anche a un primo sguardo: pesavano la metà e assorbivano l’acqua molto più lentamente degli altri. I semi radioattivi avevano tre volte più cisteina sintasi di quelli incontaminati. Questa proteina è nota perché protegge le piante legandosi ai metalli pesanti. Nei semi coltivati nella zona off-limits era inoltre presente il 32% in più di betaina aldeide deidrogenasi, un composto chimico che riduce le anomalie cromosomiche nel sangue umano esposto a radiazione nucleare.
Secondo Hajduch queste differenze con i semi normali sono il modo in cui la pianta si difende dalle radiazioni nocive. Resta ancora da chiarire quale sia il meccanismo preciso o se queste modifiche saranno trasmesse ai discendenti delle piante. Per questo motivo la ricerca continuerà anche su diverse generazioni di soya.
Lo studio apre interessanti prospettive sia per comprendere i meccanismi di sopravvivenza della vita in presenza di forte radiazione nucleare, ma anche, in vista delle prossime missioni lunari e marziane, per progettare piante in grado di resistere alle forti radiazioni nello spazio.