L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha stravolto le logiche di consumo dei prodotti che arrivano nei nostri piatti a scapito della sostenibilità ambientale. E il prosperare degli ecolabels che garantiscono gli eco-consumatori ne mina la loro stessa credibilità? il WWF ha chiesto a una agenzia indipendente di testarne diversi, i piu noti
AMBIENTE – “Ripartire, da una scelta consapevole del consumatore ci è sembrato un primo passo per sconfiggere l’offerta omologata del mercato che trascura il valore del prodotto locale e stagionale, dimentica le tecniche di pesca selettive e si rivolge verso zone di pesca ormai lontane e in molti casi impoverite” è con questa frase che Marco Costantini, responsabile del Programma Mare del WWF Italia, riassume la scelta del WWF di promuovere un consumo sostenibile dei prodotti del mare.
L’industrializzazione della pesca, avviata negli anni Settanta, ha determinato un progressivo declino della quantità del pescato globale e, di conseguenza, una progressiva de-localizzazione della pesca. Non è così raro trovare in vendita calamari sudafricani e pesce specchio neozelandese, pangasio vietnamita e pesce di pregio proveniente dal Senegal – “così che paradossalmente” afferma Costantini, “certe specie hanno cominciato a migrare a distanze maggiori da pescate che non da vive”. Il miraggio del guadagno ha inoltre portato a bottini ittici ben lontani dalle prescrizioni che prevedono una taglia minima e la protezione delle specie a rischio.
Ma da dove partire per essere un eco-consumatore? Un aiuto dovrebbe venire dai così detti ‘ecolabel’ ovvero le certificazioni che si trovano sulle etichette di quei prodotti commerciali che garantiscono una pesca rispettosa dell’ambiente marino.
I due marchi più riconosciuti a livello internazionale sono Marine Stewardship Council (MSC) e Friend of the Sea. Si tratta di organizzazioni indipendenti che con il proprio marchio mirano a garantire una pesca sostenibile capace di mantenere costante il livello delle popolazioni ittiche. E se è abbastanza noto che MSC nacque nel 1995 da un’idea congiunta del WWF e della azienda alimentare Unilever – proprietaria di marchi come Knorr, Findus, Algida, Lipton solo per citarne alcuni – pochi sanno che Friend of the Sea è una certificazione made in Italy, fondata nel 2006 da Paolo Bray, attualmente direttore dell’ngo.
Ma MSC e Friend of the Sea non sono affatto le uniche certificazioni in circolazione. “La proliferazione di queste iniziative” dice Costantini “porta alla confusione nel consumatore con il conseguente rischio che le certificazioni stesse possano perdere di significato e di credibilità”.
Proprio per cercare di non incorrere in questo rischio, il WWF ha redatto una lista di criteri che, insieme alle linee guida della FAO (“Guidelines on Ecolabelling of Fish and Fishery Products from Marine Capture Fisheries”, 2005) e dell’ISEAL, mirano a garantire la validità degli schemi di eco-certificazione.
Ma c’è di più. Recentemente il WWF ha chiesto a una agenzia indipendente (Accenture Development Partnership) di testare diversi ‘eco-label’ (MSC, Naturland, Friend of the Sea, Krav, AIDCP, MEL Japan, Southern Rocklobster), verificandone la capacità di definire in maniera esaustiva l’impatto della pesca sugli ambienti marini e i sistemi di pesca utilizzati.
Il risultato di questa analisi, presentato il 18 gennaio 2010 in anteprima mondiale, ha identificato in MSC il migliore indice strutturato (eco-certificazione) per garantire la sostenibilità della pesca e degli ecosistemi marini. Anche MSC, tuttavia, a fronte di un’ottima valutazione di quelli che sono gli impatti della pesca, non prende in considerazione altri parametri etici e sociali così come il welfare animale, parametri per altro identificati dalle linee guida come necessari.