CRONACA – Non bastano 5.000 barili al giorno per totale stimato di circa 7000-10000 tonnellate di petrolio riversate in mare dal 20 aprile scorso a oggi per fare dell’esplosione della piattaforma petroliferia Deepwater Horizon nel Golfo del Messico il peggior disastro ambientale legato all’industria del greggio negli ultimi 30 anni.
Il triste primato spetta alla Ixtoc 1 che nel giugno del 1979 fu responsabile di uno sversamento totale di 476 mila tonnellate di petrolio rilasciate nella baia di Campeche, proprio nel Golfo del Messico, nell’arco di 9 mesi. Migliaia di tartarughe marine furono sgomberate con gli aerei dalle spiagge messicane, pesantemente contaminate e la PeMex non pagò mai i danni arrecati.
Poco peggio andò alla Exxon Mobil dopo il disastro della Exxon Valdes (Prince William Sound, Alaska 1989). Condannata inizialmente a pagare 287 milioni di dollari di danni e 5 miliardi di dollari come ammenda (anche per risarcire i danni ambientali), dopo anni di appelli e perizie in tribunale, il 25 giugno 2008, alla Exxon fu chiesto di pagare solo 507,5 milioni di dollari di danni. Eppure a vent’anni da quella catastrofe, la fauna selvatica locale risente delle fuoriuscite di petrolio, secondo una recente ricerca di Daniel Esler e colleghi pubblicata su Environmental Toxicology and Chemistry. Secondo Esler “la durata della presenza di petrolio residuo e degli effetti associati non sono limitate a pochi anni dopo l’accaduto, ma per alcune specie il rischio può durare decenni”.
Intanto quella della Deepwater Horizon però non è una stima definitiva: se la BP ha dichiarato una perdita di circa 1.000 barili al giorno (c.a. 135 tonnellate) e la NOAA (National Oceanographic and Atmospheric Administration) ha portato la stima a 5.000 barili/giorno (c.a. 675 tonnellate), da i i calcoli di cui sopra, il 2 maggio il Wall Street Journal parlava di 25.000 barili al giorno e la stessa BP aveva originariamente dichiarato per la Deepwater Horizon una produzione potenziale di 150.000 barili al giorno.
Qui è possibile visualizzare una mappa che, sovrapposta a Google maps, aiuta a dare l’idea di quanto sia vasta l’area coinvolta dal disastro della piattaforma petrolifera della British Petroleum. Eppure le immagini tratte da satellite non visualizzano petrolio sulla superficie del mare. Come mai? Per ‘nascondere la polvere sotto il tappeto’ la BP ha usato dei disperdenti, tra cui uno chiamato Corexit considerato tossico dalle autorità statunitensi, che ne richiedono il ritiro, al fine di impedire che sull’acqua si formi lo strato nero e oleoso. Al suo posto si formano numerose, enormi e tossiche nuvole fluttuanti di colore marrone (guarda qui il video) dove il petrolio viene ridotto in goccioline e distribuito lungo tutta la colonna d’acqua. Nessuno è in grado di dire cosa accadrà ai pesci, delfini, tartarughe quando ci passeranno dentro… ma qui potreste averne un’idea.
Con la Deepwater Horizon, la BP mirava al cosiddetto ‘petrolio difficile’, il petrolio, cioè, che richiede alte tecnologie per essere estratto. Trivellare a 1800 metri di profondità è una sfida ingegneristica al limite delle conoscenze tecniche attuali, privo di pratiche consolidate. Ma metà dei nuovi giacimenti scoperti negli ultimi trent’anni si trova sotto i fondali oceanici, a profondità crescenti. In questo contesto il disastro ecologico sarebbe quasi un “rischio calcolato” a misura di Big Oil e persino i 30 miliardi di dollari che BP stima di dover sborsare nei prossimi 10-20 anni potrebbero essere una cifra assolutamente alla portata.
Intanto c’è chi pensa che si debba dar inizio alle le perforazioni della Bp nel nostro ‘piccolo’ e chiuso Mediterrano, dove per altro ogni anno ci sono già sversamenti di 500 mila tonnellate di greggio a causa di perdite croniche che si verificano durante operazioni di routine.
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