AMBIENTE – Alla vigilia della Conferenza della Convenzione Onu sulla diversità biologica, un gruppo di esperti di Cambridge fa il punto della situazione e indica la strada da seguire nei prossimi anni per proteggere davvero la ricchezza principale del pianeta.
Ignazio La Russa e Giulio Tremonti, i nostri ministri della Difesa e dell’Economia, che si occupano di ambiente e di conservazione della biodiversità? Piuttosto difficile da immaginare, vero? Eppure questa è proprio una delle vie indicate oggi su “Science” da un gruppo di esperti di conservazione dell’Università di Cambridge per affrontare seriamente la questione della perdita progressiva della biodiversità. L’idea, insomma, è che a occuparsene a livello politico non sia – quando va bene – un singolo ministro dell’ambiente, ma i governi nel loro complesso, e quindi tutti i settori principali di governo. Che dovrebbero finalmente riconoscere il mantenimento dei capitali “naturali” come un elemento chiave delle loro politiche .
L’articolo di “Science”, una revisione delle principali strategie di conservazione della biodiversità attuate finora e delle misure che sarà necessario adottare d’ora in poi, arriva alla vigilia di un appuntamento importante. Il prossimo ottobre, infatti, si riunirà a Nagoya, in Giappone, la X Conferenza delle parti della Convenzione Onu sulla diversità biologia. Obiettivi: valutare a che punto siamo nel raggiungimento degli obiettivi di conservazione previsti per il 2010, e individuare un nuovo piano strategico per il 2050, definendo nuovi obiettivi da raggiungere entro il 2020.
Il quadro tracciato dagli esperti di Cambridge è chiaro: molto è stato fatto, negli ultimi anni (e addirittura decenni) per proteggere la biodiversità. Per esempio: dal 1992 a oggi le aree protette sono state in continua crescita, sia per estensione territoriale (+2,5% all’anno), sia per numero di siti (+1,4% all’anno). Eppure tutto ciò non basta: la biodiversità è in continuo declino. Si perdono continuamente intere popolazioni selvatiche (quando non intere specie). Diverse le cause: la frammentazione e distruzione degli habitat per l’uso agricolo, industriale o commerciale del territorio, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e così via.
Che fare, allora? Per gli autori del paper per prima cosa bisogna mettersi bene in testa – noi singoli cittadini, ma soprattutto chi poi ha il potere decisionale in ambito politico e industriale – che la biodiversità è un bene comune, e che come irrinunciabile bene comune va trattata. Perché, ricordiamolo, è la biodiversità che ci garantisce cibo, materie prime (come il legname), medicinali, e anche servizi fondamentali, come la regolazione del clima o il controllo delle alluvioni. Senza dimenticare l’impatto positivo sulla nostra salute fisica e mentale. E senza dimenticare che proteggere la biodiversità significa fare un investimento magari a lungo termine, ma assolutamente sicuro. Si stima infatti che il valore economico dei benefici ricavati da ecosistemi naturali in piena salute sia da 10 a 100 volte superiore a quello necessario per mantenerli tali.
L’appello è preciso: esperti di conservazione, economisti e politici devono cominciare a lavorare insieme, per sviluppare strategie efficaci e attive a livello sociale e politico. Perché i comportamenti virtuosi dei singoli, per quanto importanti, non bastano.