Le bioplastiche sono essenzialmente il prodotto della lavorazione di zuccheri di origine vegetale. Quelli finora utilizzabili sono però solo una frazione di quelli contenuti negli scarti organici di origine agricola e in quelli provenienti dalla produzione di alimenti. Ora, batteri geneticamente modificati e poi allevati selettivamente promettono uno sfruttamento molto più efficiente di questa biomassa.
CRONACA – Nella produzione delle bioplastiche, la lignocellulosa presente nel materiale di partenza è idrolizzata, cioè la sua lunghissima catena di polimeri è scomposta in zuccheri più semplici. L’80% degli zuccheri che rimangono dopo questo pretrattamento, sono glucosio, xylosio e arabinosio.
Solo il glucosio però può essere metabolizzato dai batteri, che restituiranno poi i prodotti chimici utili allo scopo. Questo fa sì che un quarto di tutta la massa che potenzialmente potrebbe essere utilizzata va sprecata.
Cercando una soluzione a questo problema, Jean-Paul Meijnen (Delft University of Technology, Olanda), che ha presentato il 22 novembre la sua tesi di dottorato, è partito modificando geneticamente il ceppo di batteri con cui stava lavorando, lo Pseudomonas putida S12, inserendo nel suo genoma DNA proveniente da Escherichia coli, con l’obiettivo di fornirgli gli enzimi necessari a digerire lo xilosio.
L’idea funzionò, ma in parte: solo il 20% dello xilosio presente era effettivamente utilizzato.
A questo punto Meijnen iniziò ad allevare selettivamente i batteri, facendo riprodurre quelli col metabolismo dello xilosio più efficiente. In pratica, fece quello che ogni allevatore o coltivatore fa da millenni quando vuole ottenere una determinata caratteristica.
Dopo tre mesi di questo trattamento, non solo P. putida sapeva metabolizzare facilmente lo xilosio, ma aveva “imparato” anche a digerire l’arabinosio e successivamente, queste abilità sono state ulteriormente potenziate inserendo geni provenienti da un altro batterio, Caulobacter crescentus.
Infine gli stessi passaggi sono stati fatti con un ceppo che era già stato modificato per produrre pHB (paraidrossibenzoato), della famiglia dei parabeni, utilizzati nell’industria cosmetica e farmaceutica come conservanti. Anche in questo caso, i batteri sono diventati in grado di metabolizzare glucosio, xilosio e anche glicerolo. Si è scoperto inoltre che i batteri diventano più efficienti quando sono presenti tutti e tre i composti allo stesso tempo piuttosto che in presenza di uno solo alla volta, quindi non c’è bisogno di separare i composti tra loro perché il batterio si metta al lavoro, sarebbe anzi controproducente.
Le bioplastiche non sono ancora competitive rispetto a quelle analoghe ricavate dai combustibili fossili, ma i batteri di Meijnen, se saranno in grado di comportarsi allo stesso modo fuori dal laboratorio, potrebbero fare la differenza, anche perché il tipo di bioplastica di cui si sta parlando è prodotta interamente a partire da scarti, e non richiedono quindi la sottrazione di suolo per coltivazioni ad hoc, che può quindi rimanere sfruttato a scopi alimentari.