AMBIENTE

Dalla tazzina ai funghi

I resti del caffè possono essere recuperati come substrato per far crescere i funghi. Un modo per riciclare con efficienza lo scarto di migliaia di bar (e magari farci anche qualche soldino)

AMBIENTE – Il caffè in Italia è una mania, ogni città ha il suo modo tipico di servirlo. Chi vi scrive per esempio abita a Trieste, città che vanta il consumo di questa bevanda fin dal Settecento. A Trieste il consumo è il doppio rispetto alla media nazionale ed esistono decine di varianti di caffè dai nomi più strampalati. La bella sorpresa è che dai resti del caffè, il nostro Paese potrebbe far soldi e creare posti di lavoro. Come? Utilizzando i fondi e gli scarti di lavorazione della tostatura per produrre funghi.

Shuting Chang, professore di biologia all’Università di Hong Kong, che collabora al progetto Zeri (Zero Emission Research Initiative), da più di vent’anni sta svolgendo delle ricerche che dimostrano come il caffè sia un substrato ideale per la coltivazione di funghi. Il professor Chang ha ottenuto ottimi risultati soprattutto per la crescita degli ostrica, degli shitake e dei reishi. I suoi studi confermano che il chicco di caffè, dalla piantagione alla torrefazione, fino al consumatore è una coltura perfettamente monitorata, soggetta a controlli qualitativi che non hanno eguali tra gli altri prodotti agricoli e tutto gioca a favore dei funghi.

Infatti, per preparare il caffè, l’acqua calda o il vapore ad alta temperatura passa attraverso i chicchi tostati e macinati, sterilizzandoli. I fondi del caffè, possono essere così direttamente inoculati di spore fungine senza ulteriore bisogno di sterilizzazione. Inoltre la caffeina spinge alcuni funghi a spuntare più rapidamente.

A confermare i risultati di Shuting Chang, sono anche le ricerche di Daniele Gioia, tecnologo alimentare, e Annarita Marchionna, laureanda in tecnologie alimentari, entrambi dell’Università degli Studi della Basilicata. I due ricercatori hanno utilizzato i vecchi fondi di caffè per far crescere i funghi pleurotus ostreatus (volgarmente chiamati “pennette”) e pleurotus eryngii (il cardoncello). Le analisi chimico-sensoriali svolte dal Centro Italiano di Analisi Sensoriale di Matelica, hanno dimostrato che il gusto e l’aroma dei “funghi da caffè” hanno una perfetta identità, con caratteristiche (dal punto di vista della consistenza e dell’aspetto visivo) addirittura migliori rispetto ai funghi che solitamente arrivano sulle nostre tavole.

Così a partire da quelli che adesso sono rifiuti che dai bar vanno a finire in discarica o in inceneritore, si creerebbero alimenti e posti di lavoro con investimenti minimi (in Messico infatti hanno avuto un’idea simile, ma questa volta il materiale di partenza era costituito da pannolini sporchi). Secondo i dati del Terzo Rapporto al Club di Roma, allargando la questione a livello globale, se si considerano 100mila bar tra i più importanti centri urbani, dove si vendono ogni giorno milioni di caffè, la conversione a funghicoltura porterebbe alla creazione di 100mila posti di lavoro e alla produzione di ben 16milioni di tonnellate di altri nutrienti per consumo umano (pari alla metà delle proteine fornite dall’itticoltura globale).

Per ora la sperimentazione è partita dai bar di Berlino e San Francisco ma potrebbe conquistare a breve la nota catena Starbucks Coffee.

Chissà se in futuro, anche qui da noi, sorseggiando in tranquillità un “Capo in b” (nome tipico dato al caffè macchiato in bicchiere anziché nella tazzina qui a Trieste) contribuiremo a una nuova attività imprenditoriale a impatto zero.

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