ESTERI – Che le prime parole di apertura della Falling Walls Conference di Berlino, l’evento che celebra l’anniversario della caduta del muro raccogliendo un bel gruppo di pensatori eccellenti di tutto il mondo (scienziati, economisti, esperti di scienze politiche e sociali) a discutere dei prossimi muri da abbattere, sarebbero state dedicate all’Italia devo dire che no, non me l’aspettavo. Peccato che non ci siamo meritati una menzione speciale per qualche merito scientifico o di ricerca. Quando ieri sera Sebastian Turner, della Falling Walls Foundation, ha preso il microfono, è stato per annunciare anzitutto che «Berlusconi si è dimesso. A volte le crisi portano anche qualcosa di buono». Applausi in sala.
A me è venuta un po’ di tristezza. Perché eravamo in un posto magnifico, la Biblioteca di Stato di Berlino, un capolavoro architettonico, una miniera di sapere (11 milioni solo i libri, più gli abbonamenti alle riviste), un patrimonio storico notevole (lì sono conservati gli spartiti originali di molte opere di Bach, Beethoven e Mozart). Perché eravamo pronti ad aprire i lavori di una conferenza che, solo sul fronte scientifico, vedrà partecipare oggi nomi eccellenti come quelli di Cédric Villani, medaglia Fields per la matematica, Ferenc Krausz, uno dei pionieri dell’attofisica, il premio Nobel per la chimica Aaron Ciechanover. E in mezzo a tutte queste meraviglie, l’Italia faceva capolino per la sua (ridicola) situazione politica. Un paese che agli occhi del mondo oggi conta in virtù dei danni che può fare e mai per i suoi avanzamenti scientifici o tecnologici.
Detto questo, la conferenza è poi cominciata davvero, con un intervento di Robert Darnton, direttore della Biblioteca universitaria di Harvard. Darnton ha ricordato che per secoli biblioteche e università sono stati sacrari di cultura chiusi al grande pubblico e accessibili a una ristretta élite. Respingenti anche dal punto di vista architettonico: mentre parlava, scorrevano immagini di fili spinati, cancelli, muri, lucchetti di biblioteche sparse per il mondo. E anche una fotografia di lui studente a Oxford che, dopo aver fatto tardi, cerca di rientrare in dormitorio scavalcando un muro.
In anni recenti, sostiene Darnton, parte della responsabilità di questa chiusura è andata anche ai grandi gruppi editoriali di volumi e riviste specializzati (Elsevier, Springer e Blackwell in testa, i tre campioni del mercato), che hanno imposto prezzi salatissimi (e in continua crescita) per gli abbonamenti (fino a sfiorare i 30.000 dollari all’anno, per esempio).
Per il “bibliotecario di Harvard” non c’è dubbio: è il momento di cambiare. È il momento dell’open access, in cui i risultati della ricerca – ma non solo, anche i patrimoni culturali in generale – devono essere resi disponibili per tutti coloro che li vogliano consultare. Una rivoluzione che per Darnton dovrebbe partire dal mondo sviluppato, che ha ovviamente meno difficoltà su fronti che potrebbero ostacolare il cambiamento (uno fra tutti il digital divide). Cita i casi della Digital Public Library of America (DPLA) e di Europeana, biblioteche digitali che puntano a consentire l’accesso agli immensi patrimoni culturali di biblioteche, musei e archivi rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa. Per la DPLA, Darnton ha annunciato una versione preliminare del sistema open access entro il 2013. «Può sembrare un’utopia, ma abbiamo bisogno di pensiero utopistico se vogliamo abbattere i muri che ci separano dalla possibilità di accedere davvero a quelli che sono a tutti gli effetti beni pubblici».
Di tanti altri muri da far crollare si parlerà oggi. Cercheremo di tenervi aggiornati via twitter.