CRONACA – Molti sapranno che il 2012 (il 31 dicembre per la precisione) segna una data chiave per il protocollo di Kyoto e cioè la fine del primo periodo d’impegno, entro il quale nazioni (e aziende) dovranno (dovrebbero?) aver raggiunto il loro goal di riduzione delle emissioni di gas serra, entro i limiti stabiliti in vari trattati e negoziazioni. Quella che dovrebbe rappresentare una data “felice” nel senso “abbiamo soddisfatto i nostri impegni, ora continuamo con nuovi obiettivi”, potrebbe diventare invece una data infelice, e cioè la morte del protocollo di Kyoto.
Quesa almeno è la preoccupazione crescente. E la COP17 ora in pieno svolgimento a Durban, Sudafrica, potrebbe essere il luogo dove la preoccupazione diventerà certezza. Siamo ormai lontani da quel 1997 quando il protocollo firmato nella città giapponese sembrava segnalare una nuova coscienza a livello internazionale anche a livello istituzionale, sembriamo ormai anche lontanissimi dal 2007, anno in cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace all’Intergovernmental Panel on Climate Cange e ad Al Gore per l’impegno sul clima mondiale. Anzi, se non proprio il canto del cigno, forse proprio quest’ultimo evento ha rappresentato un climax dell’attenzione pubblica nei confronti del tema, che dopo aver superato la cima sembra ora avviata verso un (inesorabile?) declino, complice sicuramente la crisi economica mondiale, ma non solo.
Dunque Durban potrebbe davvero essere il canto del cigno del protocollo di Kyoto, visto che dovrebbe essere il luogo dove delineare una nuova fase degli impegni internazionali sulla riduzione delle emissioni di gas serra ma potrebbe invece tradursi in una debacle globale o quasi sulla questione.
Il leak che sta serpeggiando in rete negli ultimi giorni (la conferenza è inziata lunedi e sta entrando nel vivo) è che la prima defezione sugli impegni sarà quella canadese, e non è poco. Gli Stati Uniti come hanno sempre fatto (non hanno mai firmato il protocollo, praticamente l’unico stato a dichiarare che non hanno mai avuto l’intezione di aderire) continuano a “trascinare i piedi” sull’impegno a ridurre le emissioni e continuano a chiedere una posizione di favore (della serie “se ce la facciamo, coi nostri tempi, qualcosa ridurremo, forse, ma anche no”).
Altri leak riportano che alcuni paesi del Sud America, gli Stati Uniti e l’Arabia saudita, potrebbero tirarsi fuori dal Green Climate Fund, un fondo di 100 milioni di dollari (annuali, fino al 2020) per mitigare i danni del riscaldamento globale e ridurre le emissioni. Intanto l’Europa, invece, chiede a gran voce che che il board del Green Climate Fund inizi a lavorare il prima possibile, con il 2012. E Cina e India cosa faranno?