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La prova del nove per gli esperimenti

CRONACA – Ricordate la faccenda dei batteri all’arsenico? Nel dicembre 2010, la NASA aveva annunciato la strepitosa scoperta di batteri con arsenico al posto del fosforo nel DNA, con tanto di studio su Science. Subito erano piovute critiche al lavoro e poco più di un anno dopo due nuovi studi, sempre su Science, hanno smentito i primi risultati. Il caso non è affatto raro: sono molto gli studi – pubblicati anche su riviste serissime e rigorose – che non trovano conferma quando replicati. Non necessariamente si tratta di frode: magari c’è stato solo un umanissimo bias nell’enfatizzare i dati positivi e trascurare quelli negativi. Resta il fatto che la scarsa affidabilità dei dati non è mai un bene e tanto più nella ricerca biomedica, dove può significare grande ritardo (e spreco di risorse) nel trovare nuove terapie efficaci. Proprio per superare questo ostacolo Elizabeth Iorns, assistant professor all’Università di Miami, ha dato vita alla Reproducibility Initiative, un nuovo programma, recita il sito, «per aiutare gli scienziati a validare i loro studi per la pubblicazione o la commercializzazione», attivo al momento per il settore della ricerca biomedica e biotecnologica .

Funziona così: tu scienziato hai compiuto una certa indagine e magari hai anche già pubblicato i risultati? Bene, puoi chiedere alla Reproducibility Initiative di provare a validarli. La richiesta viene accolta da un comitato scientifico che stabilisce quali aspetti abbiano effettivamente bisogno di essere replicati e assegna il lavoro a uno dei laboratori che afferiscono a ScienceExchange, altra iniziativa creata da Iorns. In pratica, una rete di laboratori che offrono (a pagamento) i servizi più diversi per la ricerca biomedica, dal sequenziamento di DNA alla creazione di topi mutanti.

Il contatto con il laboratorio incaricato della “prova del nove” è confidenziale: una volta ottenuto il feedback, tu ricercatore puoi decidere che cosa farne, sapendo che esiste una corsia preferenziale di pubblicazione per il nuovo risultato ottenuto (che si tratti di una conferma o di una smentita) su una nuova serie di PLoS One, dedicata appunto alla Reproducibility Initiative. Un’ottima opportunità, visto che il numero di pubblicazioni conta, e che difficilmente le repliche di studi trovano posto sulle riviste scientifiche, più interessate all’originalità.

A parte la pubblicazione, tutto ciò potrebbe servire per confermare dati particolarmente sorprendenti e inattesi prima di una pubblicazione, oppure per ottenere una sorta di certificazione della qualità dei propri risultati nel momento in cui si voglia provare a commercializzarli. «In generale, mi sembra improbabile che un ricercatore, notoriamente persona con un grandissimo ego, chieda a qualcun altro di confermare dei dati che ha già pubblicato e ai quali magari ha lavorato per anni», commenta scettico Mauro Giacca, direttore dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology di Trieste. «Però per studi applicati, magari già nelle fasi di sviluppo preclinico, potrebbe funzionare».

Ma c’è un altro aspetto critico da considerare: per ottenere la replica del tuo studio, tu ricercatore devi pagare. Certo, non quanto ti è costato lo studio originario, visto che in questo caso non si andrà per tentativi ed errori, ma comunque non si tratta di costi simbolici. Dunque: pagare perché qualcuno dica che i tuoi dati non sono poi così affidabili? Sarebbe incredibilmente onesto, ma forse poco probabile. Alla Reproducibility Initiative replicano sottolineando che a usufruire del servizio potrebbero essere soprattutto piccoli laboratori o aziende biotech, interessati sia a mostrare agli altri la validità del proprio lavoro, sia a capire meglio su quali linee di ricerca interna puntare per sviluppi ulteriori. E fanno sapere che stanno cercando di attivare collaborazioni con altri partner per finanziare la riproduzione di studi di provenienza accademica.

«Credo che quello del costo rappresenti un grosso limite per lo sviluppo di un sistema di questo tipo, soprattutto in un paese come il nostro» commenta Maurizio Fraziano, immunologo dell’Università di Roma Tor Vergata. «Però credo anche che università ed enti di ricerca farebbero bene a dotarsi di sistemi di valutazione indipendente». In ogni caso anche Fraziano, come Giacca, immagina un funzionamento più semplice nell’ambito della ricerca applicata. «Un modello ideale potrebbe essere quello della partnership tra un ricercatore accademico e un’azienda che insieme chiedono la validazione dei dati per capire se e come procedere nello sviluppo per esempio di un farmaco» afferma Fraziano. Il problema, però, è che l’Italia non è l’America e da noi di aziende biotech vivaci e dinamiche non ce ne sono poi molte. Insomma, non resta che stare a vedere: vi terremo aggiornati sull’iniziativa.

Immagine: RDECOM

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance