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HIV: curato un neonato?

Crediti immagine: JlhopgoodFUTURO – I dati verranno ufficialmente presentati oggi ad Atlanta all’annuale Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportuniste (ma già ieri sono state fatte alcune dichiarazioni pubbliche dagli autori della ricerca): sarebbe stato documentato un caso di neonato curato “funzionalmente” dall’infezione da HIV contratta dalla madre. Sarebbe il primo documentato con certezza (ne esistono altri di esempi citati in passato, ma nessuno ha superato lo scetticismo delle comunità medica). Questo potrebbe essere diverso.

Nei paesi sviluppatti il problema della trasmissione del virus dell’hiv durante la gravidanza o il parto è limitato. Esistono infatti dei trattamenti che riducono drasticamente la trasmisisone e che si basano essenzialmente sulla somministrazione di antiretrovirali alla madre durante la gravidanza e al neonato nelle prime settimane di vita. è chiaro che il problema della trasmissione è però molto alto nei paesi in via di sviluppo dove l’accesso alle cure è basso.

Il caso che verrà riportato oggi è particolare per essere avvenuto in un paese industrializzato, ma potrebbe essere una storia comune in Africa per esempio. La madre del neonato (di cui non si sa né nome né sesso)  si è presentata in un ospedale di una zona rurale negli Stati Uniti (nello stato di Mississippi) già in travaglio (non era mai stata visitata prima durante la gravidanza) e non sapeva di essere sieropositiva. Non c’è stata perciò possibilità di sottoporla alla terapia che si segue normalmente in questi casi. I medici quindi hanno deciso di somministrare al neonato una terapia d’urto, più forte di quella che normalmente viene data ai bimbi la cui madre viene sottoposta a terapia antiretrovirale durante la gravidanza.

Il neonato infatti è stato mandato subito per accertamenti al Medical Center dell’Università del Mississippi, dove è arrivato 30 ore dopo la nascita. Lì la dottoressa Hannah Gay ha deciso di somministrare gli antiretrovirali ancor prima di avere la conferma che il bambino fosse sieropositivo, in maniera quasi “preventiva”. In effetti subito dopo gli esami hanno dato un risultato positivo anche se con un’infezione piuttosto bassa per un neonato (il che suggerisce , sostiene Gay, che sia stata contratta nell’utero e non durante il parto)

Neonato e madre sono stati seguiti per 18 mesi, poi la madre ha smesso di presentarsi in ospedale e di dare i farmaci al bambino. Quando sono alla fine tornati  in ospedale il piccolo aveva 23 mesi e i medici si aspettavano di trovare l’infezione a uno stadio molto avanzato. Così non è stato e anche analisi molto accurate hanno mostrato che non restavano tracce di HIV nel sangue del bambino. Anche dopo un anno.

Il bambino, secondo gli autori della ricerca, è da considerarsi “curato funzionalmente” (cioè potrebbero esserci ancora tracce minime di virus nel sangue non rintracciabili con egli esami ma che non daranno luogo a infezione).

Non mancano gli scettici, che si concentrano soprattutto sul dato dell’effettiva infezione del bimbo alla nascita. Qualcuno la mette in dubbio e ritiene che se il bimbo non fosse davvero stato infettato alla  nascita non si tratterebbe che di un caso di prevenzione, come ce ne sono tantissimi e molto ben documentati. Gay e e Deborah Persaud (autore principale dello studio che si presenterà oggi) ne sono però sicure: le analisi sul bimbo erano accurate e l’infezione c’era davvero.

Come sarebbe avvenuta la guarigione? Gli autori della ricerca credono che possa essere dovuta alla tempestività e all’intensità del trattamento che avrebbe distrutto quanti più virus possibile prima che si formassero i reservoir nascosti tipici di questo virus, che sono anche il motivo per cui a oggi le persone sieropositive non possono essere curate in maniera definitiva: queste riserve rimangono dormienti e se la terapia antiretrovirale viene stoppata possono svegliarsi e dar luogo alla malattia. Se fosse vera questa supposizione rientrerebbe appieno nella filosofia del “hit hard, hit early” (colpisci forte, colpisci presto) promossa da David Ho, che da metà degli anni Novanta ha fatto sì che i pazienti venissero messi a un regime di terapie molto aggressivo e molto precoce, con un miglioranto radicale nelle statistiche di sopravvivenza.

Resta tutto da verificare, e replicare soprattutto. Se confermato, il caso del neonato del Mississippi sarebbe il secondo paziente guarito al mondo. Il primo è quello dell’anno scorso, un adulto che ha avuto un trapianto di  midollo osseo (per un trattamento contro la leucemia) che conteneva un gene (CCR5 HIV) che conferirebbe resistenza al virus. Il vantaggio del trattamento usato dei medici dell’Università del Mississippi è naturalmente quello di essere fatto con farmaci già in uso e dunque potrebbe essere utilizzato come routine in tempi molto brevi, anche se andrebbe a ridurre un problema già abbastanza ridotto nei paesi ricchi e cioè quello della trasmissione madre/figlio durante la gravidanza/parto. Tale terapia resterebbe comunque di applicazione non facile nei paesi poveri, dove il problema rimane quello dell’accesso alle terapie.

Resta comunque un’osservazione molto importante nel quadro generale della lotta all’AIDS.

Crediti immagine: Jlhopgood, Flickr

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.