London patient: il secondo guarito dall’HIV a 30 mesi dalla sospensione delle terapie
Sono stati presentati alla Conferenza sui retrovirus e le infezioni opportunistiche (CROI) di Boston (8-11 marzo) i dati sulla salute del secondo paziente dichiarato guarito dall'HIV. Ma non è la strada percorribile da tutti.
Adesso sappiamo chi è, potremmo dire che ha fatto un coming out sui generis. Adam Castillejo, un quarantenne di origini venezuelane che vive da vent’anni nella capitale del Regno Unito, è il cosiddetto London Patient, la seconda persona al mondo a essere dichiarata guarita dall’HIV, il virus che provoca l’AIDS. È successo qualche giorno fa, quando a parlarne è stato un lungo articolo sul New York Times: Castillejo sentiva che era il arrivato il momento di raccontare la propria storia.
L’annuncio è arrivato in perfetta sincronia con la presentazione del suo caso clinico alla Conferenza sui retrovirus e le infezioni opportunistiche (CROI) che si è tenuta dall’8 all’11 marzo a Boston, negli Stati Uniti (e con molti delegati collegati in streaming per via delle limitazioni agli spostamenti legate all’epidemia di COVID-19). Il primo paper scientifico sul London Patient, in realtà, risale a un anno fa, quando lo stato di salute di Castillejo, ancora anonimo, era stato per la prima volta presentato su Nature a dodici mesi dalla sospensione delle terapie antiretrovirali. Ora i mesi sono diventati 30 e non v’è traccia di “virus che possa replicarsi nel sangue, nel liquido cerebrospinale, nel tessuto intestinale o nel tessuto linfoide” e gli aggiornamenti sulla sua salute sono stati pubblicati su The Lancet HIV.
L’ultima spiaggia
Castillejo è risultato positivo all’HIV nel 2003, ha raccontato al New York Times, mentre lavorava come sous chef in un ristorante alla moda di Londra. La sua salute è stata però buona per otto anni: grazie alla terapia antiretrovirale, per abbassare la carica virale fino a renderla non rilevabile, e a uno stile di vita sano, fatto di tanto esercizio fisico e attenzione alla dieta. Nel 2011, però, la brutta notizia: gli viene diagnosticato un linfoma di Hodgkin già allo stadio 4.
Il percorso oncologico, già di per sé complesso, nel suo caso si avventura in territori inesplorati, poiché sono pochissime le informazioni scientifiche sulla combinazione linfoma/HIV. L’unica speranza è un trapianto di cellule staminali da paziente sano. La procedura è pensata per cercare di superare il linfoma, è questo lo scopo principale per il quale viene intrapresa nel 2016, cinque anni dopo la diagnosi. Ma il donatore individuato, un uomo tedesco, è portatore di una particolare mutazione genetica che rende le sue cellule immuni all’HIV. Si tratta della mutazione CCR5∆32, la stessa mutazione che il ricercatore cinese Jiankui He ha introdotto nel genoma di due bambine utilizzando la tecnica CRISPR e di cui si è lungamente parlato in tutto il mondo per l’opportunità etica di quell’operazione.
I principali protagonisti della procedura su Castillejo sono stati il ricercatore dell’Università di Oxford Ravindra Kumar Gupta, già autore del primo paper dello scorso anno, e Ian Gabriel, un esperto di trapianti di midollo anche in pazienti fragili. Nella nota stampa che accompagnava l’ultimo studio, Gupta sottolinea che si tratta di una strada “ad alto rischio” e che è stata usata solamente come “ultima spiaggia per pazienti con HIV che contemporaneamente soffrono di patologie ematologiche che ne minacciano la sopravvivenza”. Non si tratta, cioè, di una strada percorribile per curare dall’HIV, ma di un caso eccezionale.
I due pazienti
Finora, oltre a Castillejo, l’unico altro caso di successo è quello del cosiddetto Berlin Patient, presentato alla CROI del 2008. Timothy Ray Brown, questa la sua identità svelata nel 2010, presentava un quadro clinico simile a quello del London Patient: positività all’HIV e un linfoma di Hodgkin che ne minacciava la sopravvivenza. Entrambi sono stati trattati con un trapianto di midollo osseo da un donatore con la mutazione CCR5∆32, ma nel caso di Brown le infusioni sono state due e il carico chemioterapico molto maggiore.
Come sottolineano Jennifer Zerbato e Sharon Lewin, due ricercatrici che hanno commentato sempre su The Lancet HIV il paper di Gupta e colleghi, i 30 mesi passati dal trapianto nel caso di Castillejo sono un periodo “significativamente lungo di aviremia in assenza di terapia antiretrovirale, considerando che il tempo di ritorno della carica virale dopo la sospensione della terapia è normalmente di 2-3 settimane”. Dallo studio guidato da Gupta risulta, inoltre, che il 99% delle cellule immunitarie di Castillejo derivano proprio dalle cellule staminali del donatore di midollo, a conferma del successo del trapianto sia sul piano oncologico che quello virologico.
La strada per una cura?
«Il fatto che si sia passati da uno a due pazienti guariti mi sembra un fatto importante sul piano scientifico», dichiara Giulio Maria Corbelli, vicepresidente di PLUS, la prima associazione italiana di persone LGBT sieropositive e uno dei delegati “a distanza” della CROI di quest’anno. «Sono contento perché è la dimostrazione che nonostante oggi le persone sieropositive possano vivere una vita in salute grazie alla terapia antiretrovirale, la ricerca scientifica non si ferma, ma va avanti».
Il fatto che la ricerca scientifica continui dimostra, secondo Corbelli, come le bufale sul fatto che una cura per l’HIV esisterebbe già, ma viene tenuta nascosta, non abbiano senso. Il London e il Berlin Patient «dimostrano che si continua a studiare perché una cura serve», che non c’è alcun complotto delle multinazionali del farmaco. «Con gli enormi investimenti che servono per sviluppare i farmaci, che senso avrebbe non immetterli sul mercato una volta messi a punto? Le farmaceutiche», domanda retoricamente, «non avrebbe maggiore interesse a vendere la cura per l’HIV per i prossimi 30 o 40 anni?».
Detto che la strada rischiosa del trapianto di midollo non è la soluzione, cosa pensa però chi sta in mezzo alla comunità di persone sieropositive della decisione di Adam Castillejo di rivelare la propria identità? «È bellissimo», dice Corbelli con la voce che tradisce l’emozione, «ed è molto coraggioso, perché l’attenzione mediatica sarà altissima». È già successo con Brown, che «si è messo letteralmente a disposizione della scienza, lo fa per noi tutti». A quel faro di speranza, ora si è aggiunto quello di Castillejo e, insieme, i due pazienti saranno sicuramente monitorati negli anni in tutti gli aspetti della loro salute e del funzionamento dei loro corpi. Una invasione della propria privacy che, lo sperano anche i ricercatori che li hanno curati, possa contribuire a capire sempre meglio come armarsi per sconfiggere l’HIV.
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