CRONACA – Come si può rendere la stampa 3D, con la quale ormai familiarizziamo (alcuni modelli base ora costano poche centinaia di euro), ancora più stupefacente? Questa, implicitamente, la domanda a cui Skylar Tibbits (architetto, designer e informatico arruolato al MIT) ha risposto nel suo ultimo TED talk.
Entusiasmi a parte, il piano è semplice: “emancipare” l’autoassemblaggio dalla sua dimensione “nano” e portarlo, attraverso le stampanti 3D, in ogni settore industriale: dal comparto manifatturiero alle infrastrutture. Anche se i fisici storceranno il naso, “4D” vuole suggerire che non solo abbiamo oggetti che si autoassemblano nella forma da noi desiderata, ma possiamo fare un ulteriore step e far sì che la loro forma continui a cambiare nel tempo a seconda delle esigenze.
Tibbits cita come esempio le tubature: man mano che una città (e il mondo) si evolve bisogna adattare la rete idrica, tuttavia le tubature costituiscono un’infrastruttura sostanzialmente fissa nel tempo: banalmente, se a un certo momento si afferma la necessità di avere in quel punto della rete una tubatura con un diametro più piccolo o più grande, l’unica opzione attuale è la sostituzione. A sua volta la nuova tubatura non sarà in grado di mantenere la stessa efficienza man mano che cambiano le necessità, e prima o poi dovrà essere sostituita. Con la stampa in “4D” potremmo avere, ad esempio, tubature che si adattano a seconda delle necessità: è addirittura possibile che un impianto di questo tipo possa al bisogno trasportare acqua, invece che per differenza di pressione, tramite movimenti “peristaltici” analoghi a quelli dell’esofago che così trasporta cibo e bevande fino allo stomaco.
In pratica si tratta di un nuovo paradigma, cioè spostare la complessità del processo produttivo interamente nella fase di progettazione, perché la costruzione (e la manutenzione) dopo avviene da sé, con un minimo o nullo intervento umano.
Secondo Tibbits, che invita gli spettatori a unirsi all’impresa che sta portando avanti il Self-assembly Lab, il laboratorio del MIT che dirige, manca davvero poco a questa rivoluzione, basta pensare che alcuni degli stessi algoritmi che ci permettono di costruire strutture autoassemblanti a scala “nano” sono immediatamente utilizzabili per la stampa a scala umana. Intanto il laboratorio è in contatto con la NASA, perché una delle prossime frontiere potrebbe essere, addirittura, lo spazio: invece di costruire complesse strutture in orbita, spendendo tempo ed energia in condizioni decisamente ostili, perché non fare in modo che si costruiscano (e si adattino) da sole?