RICERCA – Si estende dal Senegal all’Etiopia. È una fascia che copre tutta la parte settentrionale dell’Africa, da ovest a est, ed è chiamata “cintura della meningite”. Si tratta della zona con il più alto tasso di casi di meningite batterica da meningococco, con una prevalenza di 1000 casi ogni 100 000 abitanti e che interessa 26 Paesi e più di 400 milioni di abitanti. Ogni anno, durante la stagione secca, in questa zona si sviluppano epidemie di meningite che nel 50% dei casi sono letali e nei restanti possono causare seri problemi cerebrali. Nel 2009 ci fu la peggiore epidemia dal 1996 con circa 88 200 casi sospetti e più di 5000 morti.
La buona notizia è che quest’anno i casi di meningite in questa zona dell’Africa, son stati i più bassi degli ultimi dieci anni. L’agenzia sanitaria americana ha infatti affermato che a maggio del 2012 i casi di meningite erano stati appena 9000, con circa 860 morti su 18 Paesi. Numeri ancora troppo elevati ma indice che qualcosa sta cambiando.
Si deve a un vaccino, il MenAfriVac, finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation, fondazione privata che da anni lavora al fianco dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per risolvere alcuni problemi di salute pubblica. Il vaccino, sviluppato presso il Serum Institute, in India, protegge solo dal ceppo A della malattia, la più comune nelle zone endemiche dell’Africa (circa l’80% dei casi sono dovuti al ceppo A), ma «in futuro si dovrà ragionare su vaccini multivalenti, simili al MenAfriVac ma che possano coprire più ceppi» spiega a Oggiscienza Silvia Mancini, epidemiologa di Medici Senza Frontiere (Msf) ed Epicentre che ha seguito il follow up di numerose campagne vaccinali in Africa.
«Prima dell’introduzione di questo vaccino, la meningite non era mai stata trattata in maniera preventiva. Vi era un centro di sorveglianza epidemiologica su scala nazionale, cui segnalare i casi di meningite che poi venivano confermati da test di laboratorio o diagnosi clinica. I casi batterici venivano poi trattati con antibiotici e con una vaccinazione su larga scala ma di tipo reattivo: campagne di massa, cioè, che vengono fatte quando l’epidemia è già in corso per limitarne la diffusione » continua Mancini. «La novità ora, è che la vaccinazione viene fatta su scala preventiva e l’obiettivo è prevenire l’epidemia contro il ceppo A».
L’altra novità è che per a prima volta si tratta di un vaccino nato pensando alla realtà dei Paesi in via di sviluppo. Costa poco, appena 50 centesimi di dollaro, può essere tenuto fuori dalla catena del freddo fino a quattro giorni ed è termostabile, resistendo a temperature elevate fino ai 37° C. «Questo è molto importante in contesti come quello africano – precisa l’epidemiologa di MSF – dove la temperatura è molto alta e per raggiungere le comunità che vivono in mezzo alla foresta si passa per strade accidentate e prive di corrente, per cui non è facile trasportare un frigo e mantenere la catena del freddo. Inoltre può essere somministrato anche ai bambini sotto i due anni di età, al contrario di tutti gli altri vaccini che possono essere usati solo sopra i due. Fattore importantissimo per una malattia che colpisce soprattutto bambini e giovani, che può contribuire a bloccarne la diffusione».
Il MenAfriVac inoltre ha una durata maggiore dei precedenti, riuscendo a coprire i vaccinati per dieci anni anziché tre come avveniva in precedenza. Questo fa sì che aumenti l’immunità personale ma blocchi anche la trasmissione della malattia tra un individuo e l’altro. La cosiddetta immunità collettiva. «Questi sono dati di fatto – continua Mancini – il vaccino è stato introdotto nel 2010 e in questi ultimi due anni, almeno fino al 2012, sono state vaccinate su scala preventiva circa 100 milioni di persone su 10 paesi. Quello che abbiamo visto è che il numero dei malati e diminuito e l’epidemia è stata arrestata. Non c’è più passaggio da una persona all’altra».
Benché il vaccino costi appena mezzo dollaro, i finanziamenti disponibili non bastano però a coprire tutte le persone a rischio, tanto che devono essere ancora vaccinati più del doppio dei Paesi della “cintura della meningite”. «Per questo – sostiene Mancini – è importante che non solo istituzioni private come la Gates Foundation, ma anche i Governi si impegnino per raggiungere questi obiettivi di salute pubblica. È importante che gli Stati prendano parte a queste iniziative. E per ora purtroppo non sono in molti a farlo, complice la crisi e le altre voci del budget su cui vengono dirottati i fondi».
Oltre alla questione finanziaria, un altro problema cui pensare in futuro, secondo Silvia Mancini, sarà il cambiamento di epidemiologia che potrebbe nascere in seguito all’utilizzo di questo vaccino. Una volta eliminato il ceppo A infatti, è possibile che gli altri ceppi, ora minoritari prendano il sopravvento. «Per questo bisogna pensare alla realizzazione di vaccini coniugati che siano multivalenti e che combattano anche gli altri ceppi della malattia. In realtà questi vaccini sono già disponibili nei Paesi più sviluppati, ma sono poco adattabili alla realtà Africana».
La Glaxo per esempio li produce già, e come spesso fanno le grandi aziende farmaceutiche, potrebbe donarli ai Paesi più poveri. «Meglio di niente, ma è un’azione filantropica che non risolve il problema» risponde Mancini «vengono fatte una volta ogni tanto, per tacitarsi la coscienza, e con dosi rimaste inutilizzate. E non sono garantite. Inoltre non coprirebbero tutta la popolazione e non è detto che una volta arrivati a destinazione i vaccini siano ancora efficaci, perché non sono fatti per sopportare le condizioni ambientali africane. Per questo le donazioni non sono accettate da Msf. Andrebbe invece costruita una politica che garantisca la diffusione dei vaccini, a livello capillare e sistematico verso questi paesi. Un piano politico, chiaro e definito, che come nel caso del MenAfriVac, ha preso sette anni di tempo per realizzare il vaccino – tra trasferimento delle tecnologie, e test clinici per verificare l’efficacia e la sicurezza del vaccino – e garantirne la disponibilità nelle zone in cui vi è più bisogno».
Crediti immagine: DFID – UK Department for International Development, Flickr