ARTE, MUSICA E SPETTACOLI – In un piccolo villaggio agricolo delle Ardenne l’inverno sembra non voler andare via. Per una qualche misteriosa calamità la natura arresta il suo ciclo. La terra si inaridisce, gli alberi iniziano a cadere e l’intero ecosistema si ribella allo scorrere del tempo, ibernandosi in una stagione fredda e senza fine in cui le mucche non danno più latte e le api non danno più miele.
I mesi passano, sul calendario arriva la primavera e poi l’estate, ma la natura attorno rimane immobile e fredda, indifferente agli sforzi e alle paure degli uomini. Le provviste iniziano a scarseggiare. La comunità rurale del villaggio, sconvolta da queste misteriose e incomprensibili forze, abbandona lentamente ogni razionalità. Impotente davanti alla violenta opposizione dell’ambiente circostante, cede alle pulsioni più barbare e primordiali e determina così la propria autodistruzione.
La quinta stagione è il terzo lungometraggio dei due registi Peter Brosens e Jessica Woodworth. Presentato all’ultimo festival di Venezia, è stato distribuito nelle sale italiane dopo un anno di attesa. La trama ricorda da vicino il romanzo Io sono Febbraio di Shane Jones, ma i toni del film e gli sviluppi narrativi sono assai distanti da quelli della favola dello scrittore americano, pubblicata in Italia da ISBN. Nel film, le inquietudini degli uomini spersi e spauriti nelle correnti di potenti forze naturali e soprannaturali ricordano di più le opere di Tarkovskij, mentre la violenza apocalittica della degenerazione dei rapporti umani sembra conservare un’eco dello spietato Il tempo dei lupi di Michael Haneke.
Per le luci, le atmosfere e l’estetica del film, le ispirazioni dichiarate dai due registi sono invece i dipinti di Bruegel, di Michaël Borremans e di Goran Djurovic. E non è forse un caso che il pittore fiammingo appaia accanto a due autori contemporanei. Il rapporto tra modernità e tradizione gioca infatti un ruolo importante nella pellicola, dove la comunità del villaggio, contadina e disperatamente legata ai prodotti della terra, finisce per abbandonandosi ad antichi riti esoterici e pagani.
La scena d’apertura è piuttosto esemplare del tono del film e del nostro rapporto difficile, a volte impossibile, con la natura: un uomo seduto a un tavolo fissa un gallo e lo esorta a cantare, cercando di imitarlo. Il gallo non sembra reagire, rimane a lungo immobile finché, con un canto solo strozzato, defeca sul tavolo. La riflessione dell’intera pellicola è chiara, ed è evidenziata e non distorta dall’elemento surreale: se l’uomo non capisce e non rispetta il proprio ambiente è condannato a un destino di superstizione, di paura e di rovina.