ricerca

L’eredità medica di Knut, a beneficio degli animali preservati negli zoo

800px-Knut20081230-3CRONACA – Era il 2011 quando Knut, l’orso polare dello Zoo di Berlino diventato star internazionale, è stato colpito da una crisi improvvisa: è caduto in acqua ed è affogato sotto gli occhi atterriti di centinaia di visitatori. Una morte tristemente famosa che ha fatto il giro del mondo, riscaldando le polemiche sulla qualità di vita e la gestione degli animali in cattività, un dibattito che non trova mai pace specialmente quando un animale diventa l’emblema di non un solo zoo, ma di tutti quelli del mondo che ne fanno una sorta di business.

Dato il fertile terreno trovato nella discussione a tema “zoo” sono state numerosissime le ipotesi a fronte della morte di Knut, dallo stress e le elucubrazioni sui batteri che sarebbero stati visibilmente abbondanti nell’acqua della vasca, all’inadeguatezza del recinto nel quale viveva fino a ripescare una domanda che fin dalla sua nascita molti si erano posti: aveva senso tenere in vita un cucciolo completamente inadatto alla vita nel suo ambiente naturale, rifiutato dalla madre e perciò già naturalmente “svantaggiato”?

Può sembrare crudele, ma quando le femmine abbandonano la prole i principiali indiziati sono o la scarsa vitalità dei neonati o lo stress della partoriente stessa, che raggiunge livelli tali da portarla a dimenticare le cure materne. Seppur l’idea a molti possa sembrare terribile, si tratta di un comportamento osservabile non solo nel caso degli orsi polari: anche animali molto più vicini a noi come i gatti abbandonano i piccoli se sono troppo deboli, e non da meno sono le mamme panda che seppur diano spesso (si fa per dire) alla luce due piccoli, raramente ne allevano più d’uno, privilegiando il più resistente dei neonati. Le conseguenze per i cuccioli lasciati a loro stessi sono gravi in ogni caso, e la principale è una minor capacità di risposta immunitaria, quindi di resistere alle malattie e combatterle. La storia di Knut era quindi scritta fin dall’inizio, dalla penna della natura?

Le polemiche dunque, dalla condizione di vita negli zoo fino alle ipotetiche patologie, si erano nel tempo sopite in un triste addio a Knut. Sopite fino a quando sul Journal of Comparative Pathology sono stati pubblicati i risultati finali dell’autopsia e delle analisi istologiche, in quella che è stata l’investigazione più completa, lunga e intensiva effettuata su un solo animale nella storia veterinaria. Sono state utilizzate le tecniche di analisi patologica e sequenziamento molecolare più all’avanguardia a disposizione, in un lavoro mastodontico che ha coinvolto non solo il Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research (IZW), incaricato per primo di effettuare le analisi, ma ha richiesto anche gli sforzi di una serie di altri enti come l’Università Freie, l’istituto Friedrich Loeffler, il centro Max Delbrück Center di medicina molecolare e l’Università della California San Francisco.

L’autopsia e le analisi istologiche effettuate all’IZW hanno finalmente dato una risposta alla questione che era rimasta in sospeso, suggerendo (combinate a studi batteriologici e serologici) che la causa di morte sia stata un’encefalite, probabilmente dovuta a un’infezione virale. Le operazioni sono state guidate da Claudia Szentiks del Department of Wildlife Diseases. I risultati, ha spiegato Szentiks, hanno fatto luce sulla causa di morte di Knut, fin dall’inizio di sospettata origine virale. Le encefaliti, processi di tipo infiammatorio che colpiscono l’encefalo, possono infatti essere causate sia da batteri, miceti, parassiti e sostanze tossiche che da un folto numero di virus, motivo per il quale identificare patogeni nuovi negli animali selvatici è una sfida enorme (e spesso insormontabile) che richiede, come in questo caso, l’unione delle forze per combinare le conoscenze in diversi ambiti di ricerca. Nel caso di Knut il team ha analizzato le sequenze geniche di tutti i possibili patogeni coinvolti, da decine di milioni di sequenze di DNA individuali.

Come spesso si fa, per semplificare le ricerche gli scienziati hanno scelto di procedere per esclusione: uno dei principali sospettati, infatti, era un herpesvirus di origine equina già trovato in altri orsi polari ospitati in diversi zoo della Germania, ma nel caso di Knut il team è riuscito a escluderne la presenza fin da subito. Le analisi hanno invece rivelato la presenza di un gruppo del tutto sconosciuto di retrovirus (virus che integrano il proprio RNA convertito in DNA all’interno del DNA dell’animale ospite) tipici degli orsi, la cui presenza non era correlata tuttavia alla morte del giovane orso polare. L’unico patogeno al quale Knut sembrava essere stato esposto è un virus influenzale di tipo A, come suggerito dalla presenza di anticorpi all’interno del suo sangue. Secondo i ricercatori, tuttavia, è molto improbabile che possa essere stata quell’influenza a causarne la morte, in quanto non vi era traccia del virus all’interno del cervello.

Tutti gli esperimenti condotti e l’analisi dei risultati da parte dei maggiori gruppi diagnostici presenti in Germania hanno richiesto moltissimo tempo, ma hanno anche chiarito di cosa sia capace la tecnologia attuale e quali siano i limiti con i quali gli scienziati devono confrontarsi nelle analisi di questo tipo. Un piccolo spiraglio positivo in una faccenda molto triste, che offre un insight sui possibili miglioramenti e sviluppi degli studi patologici.

Dopo un lavoro così intenso i risultati fanno riflettere su come nelle ultime decadi siano stati fatti grandi passi in avanti nel campo della diagnostica. Le malattie della fauna selvatica rappresentano infatti sfide molto particolari e delicate, perché sappiamo davvero poco al riguardo ed è fondamentale la cooperazione tra i diversi zoo e riserve per approfondire la nostra conoscenza. Come esempio, la ricerca condotta su Knut ha portato alla scoperta di un herpesvirus tipico delle zebre che è in grado di uccidere gli orsi polari (come è stato documentato al Wuppertal Zoo): si tratta di un virus che in passato aveva già infettato il padre di Knut, Lars, che era sopravvissuto, e la sua partner Jerka che invece non era riuscita a sconfiggerlo.

Questa scoperta ha stupito i ricercatori, che hanno dato il via a un progetto intensivo di studio sulla trasmissione dell’herpesvirus specificamente negli animali a rischio che vivono negli zoo. Sarebbe stato impossibile fare un’indagine completa su tutti i possibili colpevoli senza il supporto dei vari zoo che hanno partecipato, spiegano i ricercatori, e che hanno fornito numerosi campioni prelevati da altri animali a scopo di comparazione. Nonostante queste nuove scoperte, purtroppo non possano più aiutare il bianco Knut o gli altri orsi che nel passato sono morti a causa delle scarse conoscenze che avevamo in ambito di patologie di questo tipo. Saremo tuttavia in grado di ospitare questi animali negli zoo in maniera molto più consapevole e informata, elaborando strategie gestionali per minimizzare quanto più possibile l’incoerenza di fenomeni di questo tipo.

Preservare gli animali selvatici è una componente importantissima nella missione degli zoo, sia per educare il pubblico giovane e adulto sia per salvaguardare le specie a rischio. Quando un animale muore, dunque, trovare le potenziali cause del decesso diventa un’investigazione che deve necessariamente coinvolgere i patologi di tutto il mondo. Gli animali che vivono negli zoo, infatti, non sono solamente esposti ai patogeni che arrivano dall’ambiente in cui si trova la struttura, ma anche a quelli ospitati dagli altri animali vicini con i quali vengono a contatto. In altre parole, si tratta di una sfida diagnostica enorme.

Crediti immagine: Aconcagua, Wikimedia Commons

Condividi su
Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".