AMBIENTE – Da più di 50 anni, le particelle di plutonio radioattivo dei test nucleari degli anni Cinquanta e Sessanta sono nella stratosfera, tra 20 e 50 km al di sopra delle nostre teste. Si pensava che fossero già tutte precipitate al suolo nel corso dei decenni ma, dopo l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull avvenuta nel 2010, sono sorti i primi dubbi. Le eruzioni vulcaniche, infatti, possono far precipitare queste particelle radioattive nella parte più bassa dell’atmosfera, la troposfera. Lo afferma uno studio svizzero pubblicato questo mese su Nature Communications. Secondo la ricerca elvetica, tuttavia, non ci sarebbe da preoccuparsi per possibili conseguenze sulla salute umana.
Tra il 1945 e il 1998, un piccolo numero di paesi del mondo ha affermato la propria potenza militare facendo deflagrare bombe atomiche in test all’aria aperta. Le dinamiche della Guerra fredda hanno portato prima Stati Uniti e Unione Sovietica, poi Francia e Regno Unito, e in seguito Cina e India, a gareggiare in esplosioni atomiche. Una volta venute meno le esigenze della Guerra fredda, le esplosioni sono andate decrescendo, ma le scorie radioattive di più di duemila test nucleari sono rimaste nella stratosfera. Si è poi aggiunta la radioattività causata da eventi come l’esplosione, nel 1964, del satellite statunitense SNAP-9A, alimentato a plutonio, che ha riversato sul pianeta scorie che si sono unite alle particelle presenti nell’aria, l’aerosol. Nella troposfera, che si estende verticalmente dal suolo per circa 17-20 km, queste particelle vengono eliminate nel giro di qualche settimana o mese.
Ma un insieme di fattori può ostacolare questo smaltimento. È il caso della tropopausa, lo strato di atmosfera che separa la troposfera dalla stratosfera. La tropopausa funge da barriera e trattiene la maggior parte delle particelle più radioattive nella stratosfera per un tempo che varia da uno a quattro anni, come dimostrato da studi effettuati negli anni Sessanta e Settanta. Le particelle più grandi, dal diametro tra uno e dieci milionesimi di metro, si depositano invece più rapidamente, rimanendo nella stratosfera per qualche settimana o mese. Poiché i test nucleari sono stati condotti molto tempo fa, si pensava che tutte queste particelle radioattive presenti nella stratosfera dovessero ormai essersi depositate.
Tuttavia, dopo l’eruzione dell’Eyjafjallajökull, fisici e climatologi hanno cominciato ad avere qualche dubbio. Il gruppo svizzero, campionando l’aerosol della troposfera, vi ha trovato elevate concentrazioni di radionuclidi. In particolare, i livelli di cesio e plutonio erano di tre volte più alti di quelli presenti nell’aria in prossimità del suolo. Questi dati contraddicono precedenti studi sull’aerosol, che avevano trovato livelli bassi in tutta la troposfera. José Corcho Alvarado e colleghi, dell’Ospedale universitario di Losanna, hanno confrontato i dati raccolti dopo l’eruzione con quelli conservati dalle autorità militari svizzere a partire dagli anni Settanta. Il gruppo ha poi creato un modello della distribuzione delle particelle radioattive nell’atmosfera sopra la Svizzera per tutto il periodo.
Dal modello è emerso che la maggior parte del plutonio atmosferico si sarebbe depositata sul territorio svizzero tra il 1964 e il 1968, confermando l’ipotesi che i test nucleari e l’esplosione del satellite siano state le maggiori fonti di radionuclidi. “Una frazione significativa di quel plutonio è comunque nella stratosfera da decenni”, scrivono i ricercatori. Quanto al plutonio radioattivo finito nelle ceneri del vulcano, l’eruzione avrebbe portato a contatto col ghiaccio migliaia di tonnellate di roccia fusa, originando una forte esplosione che avrebbe portato vapore e particelle nell’aria, facendo precipitare nelle zone più basse della stratosfera polveri sottili e gas come il biossido di zolfo. Le particelle di ceneri e zolfo si sarebbero attaccate al plutonio e al cesio nella stratosfera e li avrebbero trascinati nella troposfera.
“La forte eruzione vulcanica islandese ha ridistribuito i radionuclidi derivati dalle attività umane nella bassa atmosfera”, conclude lo studio. Innocua per la salute umana, la radioattività presente potrebbe invece essere utile a studiare il movimento delle particelle nell’atmosfera, poiché i radionuclidi possono dare indicazioni sulle modalità di circolazione dell’aria.
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