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WW1: la chimica in trincea

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SPECIALE GIUGNO – Fin dai tempi della Guerra di Troia è cosa nota che chi dominava la tecnologia aveva in mano le sorti di interi conflitti. La scienza e la tecnologia hanno sempre passeggiato di pari passo con lo sviluppo del mondo bellico aumentandone quasi sempre la violenza e la distruttività. Una delle scienze più tragicamente feconde in questo senso è stata certamente la chimica, che ancora oggi associamo ai momenti più bui del secolo scorso e di quello ancora in corso: al Vietnam di quarant’anni fa o al Medio Oriente di qualche mese fa. La guerra chimica non è però una prerogativa degli ultimi decenni, anche cent’anni fa durante la Grande Guerra, quando ancora si combatteva corpo a corpo, i soldati usavano primordi di armi chimiche, secondo le stime per un totale di più di 50 mila tonnellate di materiale, più o meno come se venissero consumate per intero più di 300 mila bombolette di deodorante spray dei nostri giorni.

In particolare la guerra chimica nel 1914 si faceva con tre sostanze chimiche: il fosgene, l’iprite e il cloro, oltre all’uso di primitivi gas lacrimogeni come il bromuro di benzile, il bromuro di xilile e il bromoacetone. Questi gas velenosi venivano impiegati in due modi: per emissione a getto continuo come una nube, oppure per mezzo di proiettili, granate o qualsiasi sorta di ordigni da trincea.

Nubi e proietti: come la chimica colpiva in trincea

Le nubi tossiche vennero impiegate per la prima volta dai tedeschi sul fronte francese nell’aprile del 1915 e inizialmente mieterono numerose vittime nelle trincee, che calarono man mano che la guerra procedeva, grazie al progressivo utilizzo della maschera polivalente, che proteggeva da tutti i gas conosciuti. Siccome il rumore degli ordigni da cui partivano le nubi era udibile dall’orecchio nemico, si procedeva per la maggior parte dei casi di notte. Anche se non venivano colpiti direttamente, i soldati in trincea dovevano però provvedere alla purificazione dell’aria prima di rioccupare le loro postazioni e anche in questo caso la chimica giocava un ruolo chiave. Si procedeva per esempio con vaporizzazioni neutralizzanti eseguite con una soluzione di iposolfito di sodio, o di carbonato sodico al 5% rispetto al fosgene e con polverizzazioni di acqua calda che trasformavano le sostanze in anidride carbonica e acido cloridrico.

Più pericolosi erano invece gli attacchi con ordigni veri e propri, che venivano scagliati direttamente nelle trincee, sia per uccidere i soldati nemici che per rendere inagibili i ricoveri sotterranei, soprattutto le infermerie.

Fosgene: la morte lenta

Il fosgene venne sintetizzato per la prima volta dal chimico britannico John Davy nel 1812 esponendo una miscela di monossido di carbonio e cloro alla luce solare. È incolore, non infiammabile, più pesante dell’aria, e ha l’odore tipico del fieno ammuffito. Gli effetti del fosgene sull’uomo sono molto aggressivi e portano a pesanti lesioni nell’apparato respiratorio, irritazione alla bocca e una tosse convulsiva persistente. Inoltre, anche se una volta entrati in contatto con l’aria pulita i soldati intossicati credevano di essersela cavata, spesso morivano apparentemente in modo inaspettato qualche giorno dopo, e questo perché in realtà il gas aveva agito sulle loro vie respiratorie provocando edema polmonare, focolai di bronco-polmonite o bronchite capillare diffusa.

Iprite: vescicante tra i più aggressivi

“Gas mostarda” veniva nominato per quel suo odore tanto simile alla famosa salsa. L’iprite, un liquido di color bruno-giallognolo estremamente vescicante, fu utilizzato per la prima volta in Belgio, a Ypres dall’esercito tedesco, quando la Grande Guerra stava volgendo al termine, il 12 luglio 1917. Le conseguenze sugli intossicati si rivelarono fin da subito devastanti, rese ancor più temibili dal fatto che seppur assai tossica la sostanza sembra non provocare dolore o prurito al contatto ed è possibile esserne contaminati anche attraverso i vestiti. Ancora oggi bastano concentrazioni di 0,15 mg di iprite per litro d’aria per provocare la morte in soli 10 minuti, mentre in dosi più basse provocava ai soldati piaghe terribili.

Cloro: la morte per asfissia

Anche il Cloro, quello che tanto comunemente utilizziamo oggi come disinfettante nelle nostre piscine, è stato responsabile durante il primo conflitto mondiale della morte di molti soldati, questa volta per asfissia.

Un assorbimento prolungato di cloro, che spesso non poteva essere evitato negli antri angusti delle trincee, portava infatti soffocamento, con una conseguente morte rapida, sebbene non sempre fulminante. Bruciore alla gola, asfissia e tosse dolorosa a causa delle ripetute inspirazioni di gas irritante erano solo l’inizio dell’agonia: molto presto giungeva schiuma rosea colante dalla bocca e dalle narici, viso cianotico, labbra nerastre e incapacità di parlare. I pazienti potevano sopravvivere per un tempo variabile, dai venti minuti fino anche ad alcuni giorni, ma per quanto potessero resistere morivano poco dopo per edema polmonare acuto.

Le radici della guerra chimica dunque risalgono a oltre un secolo fa e al contrario di quello che si può pensare, le conseguenze sul nostro pianeta sono ancora ben visibili. Finita la guerra infatti molta parte degli agenti chimici rimasti in mano tedesca venne gettata nel mar Baltico facendo sì che l’acqua salata corrodesse lentamente gli involucri degli ordigni in cui le sostanze tossiche erano contenute, producendo un’altra sostanza, questa volta solida, simile all’ambra, che ancora oggi a contatto con la pelle potrebbe causare gravi ustioni.

Crediti immagine: Cobaltfish, Flickr

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.